La storia di Nardiello, uno dei più grandi banditi della storia d’Italia. Operò indisturbato in Irpinia, facendosi beffe dello Stato e seminando il terrore.
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Quella di Vito Nardiello è una delle pagine dimenticate della storia d’Italia del dopoguerra. Una recente pubblicazione di Giuseppe Alessandri, Latitante a domicilio. La storia di Vito Nardiello, il lupo d’Irpinia (Terebinto edizioni), ha gettato nuova luce sull’incredibile vicenda di Vito Nardiello. Si tratta del prodotto di un lavoro di ricerca meticoloso che si è avvalso di fonte inedite, soprattutto dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato.
Prima di iniziare la sua carriera criminale, Nardiello prese parte alla guerra come partigiano di Tito. Anche se sono poche le informazioni in merito, secondo l’autore fu proprio l’esperienza bellica a dare a Vito la possibilità di dare sfogo alla sua natura violenta. Fu così che, una volta tornato in patria, a Volturara (Provincia di Avellino), il Nostro decise di formare una banda di criminali composta di sbandati e disertori, che beneficiava della sua esperienza militare. Nardiello approfittò del disastrato contesto postbellico – fatto di miseria e illegalità – per creare quel clima di omertà e di solidarietà che lo avrebbe protetto a lungo.
La banda di Nardiello si dedicava inizialmente alle rapine ai danni dei viaggiatori della Nazionale, tra il Malepasso e Montemarano. I banditi ostruivano il passaggio in punti strategici: i malcapitati potevano solo decidere di fermarsi per farsi derubare di tutto, o tentare la fuga con l’inversion
Destato troppo scalpore, Nardiello decise allora di dedicarsi alle rapine nelle isolate case coloniche. Il capo dei banditi aveva dalla sua una rete di informazioni che gli permetteva di capire il momento giusto per colpire: la vendita di un animale o un qualsiasi altro affare che rendesse appetibile il colpo. Fu proprio in queste rapine che Nardiello diede sfogo ad una insensata violenza, le rapine si concludevano infatti sempre con l’esecuzione delle vittime. Senza trascurare poi di partecipare ai loro funerali con studiato dolore.
Il 29 dicembre 1946, il maresciallo Garofalo riesce ad effettuare l’arresto di Vito o malamente. Torchiato in carcere insieme ai suoi compagni, alla fine anche Nardiello cede e ammette i suoi crimini. Nardiello non assisterà però al suo processo, che arriverà a sentenza nel ’52. Recluso infatti nel Carcere Borbonico di Avellino, considerato inviolabile, Nardiello era evaso già l’anno prima segando le sbarre della finestra. Secondo Alessandri, fu questo l’ultimo tassello che permise l’elaborazione del mito di Nardiello. Anche perché la conseguente latitanza durò fino al ’63.
Quella di Nardiello fu una latitanza molto particolare. La paura, da un lato, e la complicità dall’altro, gli permettevano di condurre una vita per molti aspetti normale. Invano le scarse e mal equipaggiate forze di Carabinieri e Polizia cercavano di tendergli agguati, il Giuliano d’Irpinia era sempre informato per tempo. O rispondeva col fuoco, come accadde al carabiniere Sorbo, caduto sotto i colpi del suo mitra, e al vicebrigadiere Alessandri, gravemente ferito. Nardiello non lasciò mai l’Irpinia e la sua terra di elezione, Volturara. Eppure seppe mettere in piedi (da solo?) una grande operazione di depistaggio, con false testimonianze che lo segnalavano periodicamente in ogni parte del mondo.
Invece Nardiello passava le notti invernali a casa sua, o presso abitanti compiacenti. Conduceva perfino una vita familiare, con tanto di compagna e figli. Munito di una falsa carta di identità, poteva arrotondare i guadagni illeciti con quelli da bracciante.
La Repubblica Italiana, nonostante l’efferatezza dei suoi crimini, non sembrava molto interessata alla cattura del pluriomicida. Un ruolo fondamentale fu quindi quello dell’opinione pubblica e della stampa nazionale che non mancavano di incalzare i governi. Fu posta una taglia di un milione di lire, negli anni aumentata fino alla cifra di cinque milioni. Alla fine, Nardiello venne catturato a casa sua, grazie ad una retata a cui presero parte un’ottantina di agenti che gli preclusero tutte le vie di fuga (compresi i cunicoli che aveva realizzato per le emergenze).
Dopo numerose richieste di Grazia, Nardiello – condannato all’ergastolo – ottenne la libertà vigilata nel 1986. Nel 1991 tornò allo status di normale cittadino, dopo aver scontato solo 23 anni rispetto alla condanna del carcere a vita.
Ettore Barra
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