Letteratura latina

Virgilio, Roberto Saviano e l’eco del passato

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Tanti lustri dividono Virgilio e Roberto Saviano, eppure gli echi dell’opera virgiliana continuano a resistere, segno che le colpe umane non mutano contenuto.

Dalle Georgiche di Virgilio…

Nel finale del primo libro delle “Georgiche”, Virgilio racconta i mirabili prodigi e i sanguinosi eventi verificatisi successivamente alla morte di Cesare. Alcuni, certo, di indubbia fantasia; altri, invece, di ragguardevole veridicità, come le fraternas acies delle quali ancora pesa l’ombra ai tempi dell’autore mantovano. C’è però la descrizione di un’immagine, una breve e fulminea ecfrasi, che rapisce l’immaginazione del lettore e veicola il suo pensiero verso quegli anni bui e i tristi rimasugli che ancora ci si porta dietro:

“Scilicet et tempus veniet, cum finibus illis
agricola incurvo terram molitus aratro
exesa inveniet scabra robigine pila
aut gravi bus rastris galeas pulsabit inanis
grandiaque affossi mirabitur ossa sepulchris”
(Virgilio, Georgiche. Liber I: vv. 493-497)

Virgilio, nel giro di qualche verso, crea una situazione a dir poco spettacolare: un qualsiasi agricoltore, mentre arerà i campi dell’Emazia, si imbatterà sicuramente nei resti di un inglorioso passato, rimarrà stupito (mirabitur) dinanzi a tanta crudeltà, tanta ferocia, ancor più violenta in quanto scaturita tra fazioni consanguinee. Nemmeno il lento logorio del tempo riuscirà a consumare, almeno lenire simili vicende, e la loro ombra accompagnerà le generazioni future. Ovviamente Virgilio richiama gli eventi del passato per vari fini poetici e contenutistici: le immagini si risolvono in un forte ammonimento nei confronti dei lettori della sua opera, chiamati a riprendere, a riconquistare i rudimenti del mos maiorum. Ma questa è un’altra storia.

…a Saviano:

Nell’ultimo, intenso capitolo di “Gomorra”, Saviano scrive:

“Una volta un contadino stava arando un campo che aveva appena comperato, esattamente al confine tra il napoletano e il casertano. Il motore del trattore si ingolfava, era come se la terra quel giorno fosse particolarmente compatta. D’improvviso iniziarono a spuntare ai lati del vomere brandelli di carta. Erano soldi.”

Non serve parafrasi, essendo la scrittura giornalisticamente concisa. E la scena che si descrive possiede alcune caratteristiche di quella trascrittaci da Virgilio. Tuttavia, invece di armi, l’instancabile contadino rinviene innumerevoli banconote del vecchio conio, sotterrate come rifiuti in una qualsiasi campagna. Sono i resti di un infausto passato, al quale il contadino deve inesorabilmente dar conto. Ha acquistato una terra che è stata macchiata, un appezzamento che nasconde nelle sue viscere scabrose testimonianze.

Altri contadini meno fortunati troveranno non banconote ma pericolosi rifiuti tossici, versati e nascosti dalle astute organizzazioni criminali. Il mercato, l’economia, l’adorato Dio Denaro portano anche a questo. L’eco virgiliana è però soffusa, come una voce che viene da molto lontano. D’altronde, l’opera del Mantovano è così distante da quella di Saviano, non solo per i tanti e insormontabili anni che intercorrono tra di queste, ma anche e soprattutto per l’argomento, per il genere, e per tanti altri fattori. Sono forse fin troppo lontane.

Eppure, nonostante si dubiti che Saviano abbia tenuto conto del passo virgiliano, si rifletta comunque sulla potenza espressiva delle due immagini: esaminate singolarmente presentano notevoli somiglianze. Si rifletta ancora sulla possibilità che una qualche reminescenza letteraria abbia portato Saviano a raccontare della sua terra per mezzo di una celebre espressione virgiliana. E si rifletta anche sul significato che le due diverse categorie di oggetti rinvenuti – da una parte elmi e spade, dall’altra banconote del vecchio conio – rivelano al lettore: la consapevolezza della storia della propria terra attraverso il rinvenimento di crude testimonianze del passato. Non erano allora una leggenda i campi dell’Emazia bagnati di sangue romano; non sono oggi un’invenzione di chissà chi i rifiuti tossici versati in grandi fosse e poi ricoperti di terra e così celati. Al di là delle banconote, al di là delle armi, entrambi gli autori, distanti quanto le proprie opere, hanno covato l’intenzione di risvegliare il lettore, di ammonirlo, e lo hanno potuto fare attraverso immagini forti, e più che forti tremendamente reali. Il dubbio rimane, ma non si può fare altro che sorridere pensando a quanto siano immortali e sempre attuali gli scenari e le immagini partoriti da una letteratura e da una lingua oggi fin troppo bistrattate.

Luciano De Santis

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Luciano de Santis

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