L’attacco, invece, non è quello classico con don Domenico che si schiaffeggia; prima vi è un’aggiunta atta a contestualizzare storicamente la trama, con un richiamo alla legislazione in norma di figli illegittimi che impegnò l’Assemblea Costituente tra il 1946-‘47, proprio gli anni in cui Eduardo scrisse e rappresentò per la prima volta l’opera.
Da un lato Nello Mascia, con la sua abituale recitazione “stizzosa”, dall’altra una Filumena (Gloriana) inchiodata alla poltrona, quasi impassibile, assopita. Non c’è traccia della Filumena ferina, descrittaci da Eduardo «in atteggiamento da belva ferita, ma pronta a spiccare il salto sull’avversario».
E si procede così, con Gloriana seduta quasi per tutto il tempo. Che questa scelta serva a dimostrare che ora l’ex prostituta possa dirsi finalmente padrona in casa Soriano? Ma Filumena è una furia, deve agitarsi e occupare materialmente tutti gli spazi, almeno deve fulminare con lo sguardo, non può assolutamente stare ferma.
Filumena sa piangere
Filumena se la ride
Ma vi è di più. Nel tentativo di arginare lo spirito da sceneggiata dell’interprete femminile e aggiustare il tiro della sua Filumena, Nello Mascia ha dovuto leggere il personaggio della protagonista in tono farsesco, fraintendendo – volutamente? – la frase chiave: «cunuscevo sulo ‘a legge mia: chella legge ca fa ridere, no chella ca fa chiagnere!». E così Gloriana si rivolge al pubblico, cerca la complicità con lo spettatore e, più la sala ride, più l’attrice marca con tempi comici la battuta successiva.
C’è un po’ di sceneggiata con una Filumena che piange prima di quando dovrebbe; c’è molta commedia (non che nelle commedie di Eduardo non si possa ridere, ma il riso dovrebbe essere amaro); ma non c’è la sostanza: «chisto è nu dramma, gruosso» dice la Loren ai figli in Matrimonio all’italiana.
Non va meglio per la costruzione degli altri personaggi minori ma decisivi: Diana (Francesca Golia) non è cinica ma letteralmente stupida; Rosalia Solimene (Cloris Brosca), giustamente decostruita del bozzetto di maniera, pare però trovarsi sulla scena per puro caso; leggermente accresciuto – ma senza necessità – il ruolo di Alfredo Amoroso (Giancarlo Sorrentino), al quale spetta il compito di spingere don Domenico a ricongiungersi con Filumena in una scena che fa da collante tra il secondo e terzo atto che, pur se un’aggiunta al copione, è però eduardiana, in quanto tratta dal film Filumena Marturano con Titina.
Tradizione o modernità?
La scenografia, di Raffaele Di Florio, è stilizzata e ridotta all’osso: un tavolo con sedie a sinistra di chi guarda, una poltrona a destra; di quella «spaziosa stanza da pranzo in un deciso “stile 900” sfarzosamente arredata» nemmeno l’ombra. E allora viene spontaneo chiedersi se tali scelte minimalistiche – molto di moda negli ultimi anni e che certamente hanno il vantaggio di portare lo spettatore a focalizzare l’attenzione sul testo e non sul contesto – abbiano sempre una loro ragione: di sicuro, in questo caso, niente permette di cogliere che Filumena, dal plebeo vico San Liborio, abbia ricevuto il “privilegio” di passare a vivere nella benestante casa Soriano. Una casa sì povera di sentimenti ma non certo priva di soprammobili che suggeriscano l’attenzione per l’esteriore e per il superfluo da parte di don Mimì.
È infine da segnalare la volontà di ricostruire il contesto in cui si svolge la vicenda con una serie di puntuali richiami storico-culturali, come quello all’articolo 30 della Costituzione già ricordato in apertura, i riferimenti alla Piedigrotta del 1945, a Sciuscià di De Sica, alle musiche importate dagli Alleati. Occorre però chiedersi che senso abbia una tale ricostruzione archeologica all’interno di uno spettacolo che propone la modernizzazione delle scene e, in parte, dei costumi (questi di Luca Sallustio). Un testo come Filumena Marturano, pur affrontando temi universali, riproduce una realtà contingente ormai passata; la scelta registica, allora, può essere o quella della massima fedeltà o quella – rischiosa ma coraggiosa – di salvare tutto il salvabile e modernizzare il resto: tertium non datur, in media (non) stat virtus!
In compenso, la mostra L’attore napoletano. Oggetti e fotografie appartenuti a protagonisti del teatro allestita nel foyer a cura di Giulio Baffi è ricca e interessante; però non vale i soldi del biglietto.
Carmine Caruso
TEATRO SAN FERDINANDO – FILUMENA MARTURANO
fino al 6 gennaio 2016