“Inside Llewyn Davis”, tradotto come “A proposito di Davis” (Joel e Ethan Coen – 2013). Oscar Isaac, il Llewyn Davis del titolo, sta cantando “The Death of Queen Jane” di fronte a Bud Grossman, ed è un’audizione che sta andando follemente bene, perché Llewyn è in gamba, e dannatamente male, perché Bud non ci vede molti soldi lì.
Non una parola sul talento che a volte funziona e a volte no, nessuno spiegone, è solo che dall’inizio già lo sai, spettatore, che Llewyn è là a perder tempo e non caverà un ragno dal buco: te lo dice l’espressione di Bud Grossman. E realizzi che Llewyn lo ha capito anche prima di te, ed è per questo che ha alzato gli occhi e, senza smettere di cantare, ha fissato lo sguardo sul suo interlocutore da sotto le palpebre pesanti, con un’espressione di sfida.
Sfida? No, lo hai immaginato, era noia. E un istante dopo era solo uno sguardo stufo. E infine rassegnato… O magari semplicemente sputava un “Chissenefrega”. E in realtà era tutto questo insieme.
Uno sguardo in macchina, tutto questo in un solo sguardo in macchina.
Oh, che bravo, Oscar Isaac.
“A proposito di Davis” è la splendida pellicola che ha lanciato definitivamente Oscar Isaac, dopo una collezione di parti secondarie. In “Agora” (Alejandro Amenabar – 2009) era stato Oreste, allievo della filosofa Ipazia e poi prefetto ad Alessandria d’Egitto. Era giovane, faceva la parte dell’innamorato e aveva l’aria antip
Piuttosto monocromatiche sulla carta, ma ben sfruttate, furono le parti che ottenne negli anni seguenti, da quella del cattivo in “Robin Hood” (Ridley Scott – 2010), a quella del cattivo cattivo in “Sucker Punch” (Zack Snyder – 2011), fino poi ad arrivare a quella del cattivo che in realtà non è davvero cattivo in “Drive” (Nicolas Winding Refn – 2011). La sensazione avrebbe potuto essere che, tra la bravura ipnotica e l’aria antipatica, come principale criterio di assegnazione dei ruoli prevalesse la seconda. Eppure, nonostante tutto, nella maggior parte dei casi il risultato è meno piatto di come potrebbe sembrare, anzi: Oscar ha
Ma non divaghiamo: ecco la svolta felice della storia.
La pellicola dei Coen è un fulmine a ciel sereno. L’ispanico antipatico rimane antipatico, ma acquista spessore e diventa complesso, ferito, aggressivo, egocentrico, bloccato in un eterno limbo da cui non esce per sfiducia e per pigrizia. E per le stesse due ragioni non ha successo nemmeno nei legami, di qualunque tipo essi siano: anticonformista nel peggior senso possibile, è un approfittatore senza il becco di un quattrino che prova rancore verso più o meno tutti, uomini e donne, e che tutti tratta male. Ma ciò che non dice glielo si legge in quel famoso sguardo sotto le palpebre cascanti: plumbeo, greve, su di lui si è posato un cronico senso di delusione.
Lo stesso anno esce “In Secret” (Charlie Stratton – 2013), trasposizione di uno dei romanzi di Zola e buon esempio del tipico gusto sperimentale per il degrado e lo squallore. Oscar Isaac aiuta il film a farsi guardare: più che la sfortunata vicenda dei due amanti omicidi, infatti, la vera calamita è l’interpretazione di quel giovanotto bruttarello (?) e affascinante.
Capita di nuovo in “A Most Violent Year” (J. C. Chandor – 2014): la recitazione di Oscar Isaac fa da traino, da filo conduttore e da centro di interesse, diventa un cardine tra le scene, ciò che in realtà è l’oggetto dell’attesa dell’inquadratura successiva, il vero spettacolo e il vero motivo per cui si continua a guardare.
Infine, con piacere bisogna ricordarsi che, godendosi il suo status di talento riscoperto, ha potuto dire sì ai ruoli di Poe Dameron in “Star Wars: Il risveglio della Forza” (J. J. Abrams – 2015) e di Apocalisse nel prossimo X-Men (“X-Men: Apocalisse” di Bryan Singer – 2016).
Insomma, Oscar è bravo. Ora lo sanno tutti.
Chiara Orefice
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