Cinema italiano

Il neorealismo cinematografico italiano

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‹‹[…] il neorealismo non fu una scuola. […]. Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura››[1]

Come tutte le cose più intense e sconvolgenti, il neorealismo cinematografico italiano ha avuto breve durata. Potremmo effettivamente considerare il neorealismo come quella corrente cinematografica appartenente al periodo che va dal 1943, con Ossessione di Luchino Visconti, al 1948, con l’uscita di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica e La terra trema di Luchino Visconti (pur considerando Umberto D di De Sica del 1952, con il quale quel tipo di poetica riemerge per poi chiudersi definitivamente).

Il neorealismo è stato, essenzialmente, una breve e irripetibile stagione del nostro cinema in cui un determinato numero di personalità legate a questo settore e una serie di intellettuali cominciano a riflettere su come rimodulare il cinema italiano in un periodo in cui l’Italia stessa stava cambiando a seguito della seconda guerra mondiale.

Le origini letterarie del neorealismo

È necessario ricordare che, comunque, il termine neorealismo è di origine letteraria ed è databile già dalla fine degli anni Venti con romanzi come Gli indifferenti (del 1929, di Alberto Moravia) e Gente di Aspromonte (di Corrado Alvaro, del 1930).

Claudia Cardinale e Rod Steiger in una scena del film “Gli indifferenti” del 1964 diretto da Francesco Maselli, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia.

È un tipo di scrittura che è pienamente legata all’esperienza del reale e ha l’esigenza di una rappresentazione cruda e drammatica di una condizione umana che desidera il rinnovamento sociale.

Il neorealismo cinematografico

Come abbiamo già detto, sotto il punto di vista cinematografico, il neorealismo comincia nel 1943 con Ossessione.

Ma il movimento è stato influenzato notevolmente anche da un’altro film: Ladri di biciclette (Vittorio De Sica – 1943):

‹‹Il mio scopo è di rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, anzi nella piccolissima cronaca, considerata dai più come materia consunta››[2]

L’Italia di questo periodo deve cominciare a ricostruire tutto, è come se fosse stata rasa al suolo, affrontando un lungo periodo di difficoltà economiche. Il cinema si pone l’obiettivo di raccontare ciò che è appena passato, una rappresentazione della ricostruzione in corso.

Una grande imposizione teorica del neorealismo è rappresentata dalle opere di Cesare Zavattini ed è stata sintetizzata con il concetto di pedinamento del reale:

«Il tempo è maturo per buttar via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa»

Pedinare, seguire la realtà significa vincolare la macchina da presa ai protagonisti, mettendoli in primo piano. La vita si affaccia da sola sul grande schermo, mettendo in scena un cinema-durata che è capace di cogliere la verità e che da la possibilità agli uomini di raccontarsi per conoscersi.

All’attore bisogna sostituire l’uomo che è in grado di portare sé stesso sullo schermo.

La coppia Zavattini-De Sica

La coppia in questione, è in grado di rappresentare uno dei quattro possibili punti di vista che compongono lo sguardo neorealista. A Zavattini e a De Sica si affiancano personalità come quelle di Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Giuseppe De Santis.

Il neorealismo si presenta come un orizzonte variegato, fatto da momenti di convergenza ma anche di contraddizione. Sullo schermo vengono proiettate scene di una realtà estremamente quotidiana, fatta di personaggi e ambienti che fino a quel momento venivano esclusi dalla scena. La realtà viene catturata attraverso l’uso di attori non professionisti, del dialetto e di una macchina da presa che è letteralmente posta sulla strada e non in un set costruito appositamente.

Il segno distintivo della coppia Zavattini-De Sica, in particolare, risiede nella struttura narrativa dei loro film. Sciuscià (1946), Ladri di Biciclette o Umberto D (1952) sono lavori che procedono verso una minimalizzazione dell’intreccio narrativo. Vengono favoriti i tempi morti (la scena della pioggia in Ladri di biciclette, ad esempio, a Hollywood sarebbe stata tagliata), è valorizzata la quotidianità e l’individuo viene pedinato nella sua semplicità.

Ladri di biciclette è la storia di Antonio Ricci, è la storia di un uomo a cui viene sottratta la bicicletta, strumento indispensabile per il tipo di lavoro che fa.

Ma è indispensabile comprendere che la sua storia emerge, tra le tante altre, solo per la durata del film.

«Rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca.»

-De Sica

Cira Pinto

1 Italo Calvino, Prefazione 1964, in Id., Romanzi e racconti

2 Vittorio De Sica, Perché ‹‹Ladri di biciclette››

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Cira Pinto

Cira Pinto, nata a Torre del Greco l'8 dicembre del 1990. Cresciuta tra le videocassette Disney e le ginestre che tanto hanno ispirato Leopardi, decide il suo futuro accademico guardando ''Biancaneve e i sette nani''. Laureata al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l'Università di Napoli Federico II con una tesi in Filosofia Morale dal titolo ''Il cinema come arte del tempo. l'analisi deleuziana, tra classicità e modernità''. Ha frequentato il corso di Analisi e critica cinematografica e quello di Sceneggiatura alla scuola di cinema, televisione e fotografia Pigrecoemme. Collabora con LaCOOLtura da gennaio 2015.

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