Attori e registi

Guy Ritchie vuole essere il Tarantino inglese?

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La formula preferita di Guy Ritchie per metter su un film è quella che gli ha garantito gli incassi maggiori con “Snatch – Lo strappo” (2000), e che in verità risale al suo primo lungometraggio, “Lock & Stock – Pazzi scatenati” (1998).

Nella loro giusta dose di follia, le due pellicole si presentano come film di intrattenimento di ottima fattura, ma che non possono non definirsi l’opera di un imitatore: come scherza il sito Whatculture, si tratta di film di Quentin Tarantino che Quentin Tarantino non ha diretto.

Ritchie stesso in “Lock & Stock” fa esclamare a uno dei suoi personaggi, davanti ad una stanza trasformata in campo di battaglia: “Che cos’è, ‘Pulp Fiction’?”.

C’è qualcosa di male in questo? No. Se non fosse che Guy Ritchie incorre nel classico errore dell’imitatore.

Esagera.

Lo stile generale: Snatch

Senza dare agli spettatori troppe chance di capire se mai potrà rendersi o no indipendente intellettualmente, Guy Ritchie procede senza indugi in pellicole che scimmiottano il pulp di Tarantino e che si somigliano un po’ tutte.

Abbiamo dunque inquadrature elaborate, un montaggio reso bizzarro da stacchi alla videoclip, colonne sonore invadenti e caratterizzanti di cui fanno parte integrante i colpi di pistola, costruzioni dell’ambiente barocche e curate. Si raggiunge una saturazione che pervade tutto, l’aspetto visivo come quello sonoro, persino la narrazione stessa, che è spesso articolata e serrata, anche contorta.

I personaggi, inverosimili e iconici, sproloquiano tutti allo stesso modo (i dialoghi di “Le iene” rimangono lì nell’Olimpo, irraggiunti), ma pretendono di essere unici e riconoscibili nella loro caratterizzazione, in qualche modo sempre illustrata come si deve da una voce fuori campo: Guy Ritchie li ama troppo per lasciare che siano le loro azioni a descriverli. Decide quindi di prendere sottobraccio lo spettatore e spiegargli per filo e per segno quel che vuole si sappia delle sue creazioni.

Sono quindi sceneggiature che provano a essere tarantiniane, infarcendosi di dialoghi fintamente geniali e mezzi aforismi tra il brillante e l’esasperante, che completano quei prodotti malgrado tutto diventati tipici e riconoscibili, oltre che largamente apprezzati.

Revolver” (2005) e “RocknRolla” (2008) continuano su quella scia, dipingendo altre facce della malavita britannica con un tono un po’ grottesco che accosta con stridore humor e violenza, in una celebrazione piuttosto compiaciuta del testosterone, tra armi da fuoco e piani geniali che mai vanno in porto.

“Se lo fa Quentin, allora lo faccio anch’io” (cit.)
(Fonte: recensione di Zuan Brunetti)

Variazione su tema: Sherlock Holmes

Questa formula è simile ma stemperata e portata indietro di duecento anni nei due film sul detective di Conan Doyle, “Sherlock Holmes” (2009) e “Sherlock Holmes – Gioco di Ombre” (2011).

Si può dire che sia la versione-Guy-Ritchie di due dei personaggi più reinterpretati di sempre: Holmes e Watson diventano i tipici simpaticoni alla “Snatch”, in qualunque situazione dotati di una verve ironica effettivamente divertente ma vista e rivista, e il cui un ricorso alla violenza è automatico quanto il caffè della mattina ma sottoposto con naturalezza al genio di una mente straordinaria.

Guy Ritchie ama visibilmente il suo Sherlock (Robert Downey Jr.), lo rende perfetto nel corpo e nella mente; gli dà quelle caratteristiche, che si può andar sicuri che piacciano, da libertino dal cuore d’oro, sfatto ma sempre attraente, scorbutico e segretamente affettuoso. Tutto ciò, non c’è motivo di negarlo, gli riesce bene.

Ogni scena è rocambolesca, nell’evidente desiderio del regista di mantenere tutto, davvero tutto, dalla scena più pacata al tortuoso combattimento in slow-motion, in un costante stato di “epicità” (se esistesse il termine diremmo “figaggine”), arrivando a rendere tutto laccato e sovrabbondante, quasi fosse tormentato da un horror vacui incalzante.

I fan di Sherlock Holmes, comunque, purché non siano troppo tradizionalisti, sono intrattenuti a dovere: si tratta di film molto autocelebrativi, magari accecanti per i più sensibili alla pacchianeria, ma sono anche reinterpretazioni liberissime che nella loro quasi assurdità divertono e gasano tanto.

Operazione U.N.C.L.E.

Già da quasi tre settimane “Operazione U.N.C.L.E.” è al cinema, e, anzi, molti sono già in procinto di sostituire il titolo in programmazione con altro. Bene: com’è questo nuovo film?

“Operazione U.N.C.L.E.” è uno spy movie sopra le righe che punta dritto all’orgasmo visivo: viva lo sfarzo della favolosa moda degli anni ’60, i colori e la luce dei paesaggi italiani, la bellezza delle figure umane.

Infatti sul piano dei costumi, delle scenografie e della fotografia il film è paragonabile a una vetrina ben allestita e davvero pregevole; da quel punto di vista potrebbe risultare più gratificante di quanto lo è invece seguire la sceneggiatura, la cui prevedibile ampollosità è per lo meno resa leggera da una coerente e costante volontà di non prendersi sul serio.

Nel complesso la pellicola e più gioc(attol)osa e meno contorta delle precedenti. Non ha pretese intellettuali, certo; benché sia incentrato sul conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il linguaggio che Guy Ritchie parla è quello dei dandy con il gel sui baffi, e lo conferma la scelta di due prestanti giovanotti (Henry Cavill e Armie Hammer) per i ruoli di spie cresciute a pane e odio (e riviste di moda, a quanto pare), costrette a collaborare e protagoniste di gag per lo più simpatiche ed esageratamente macchiettistiche.

Di sicuro è un film allegro e colorato, ambientato nell’Italia più godereccia di sempre, quindi eccentrico e glamour, insomma carino; ma al contempo affettato, presuntuoso, costruito su personaggi bidimensionali la cui costante ricerca di guizzi arguti, da snocciolare in situazioni di pericolo mortale e degni solo del più snob aplomb inglese, è urticante.

Questa è una virata, non troppo marcata, nello stile che il regista aveva dimostrato precedentemente.

Un po’ come quella che ha fatto Quentin Tarantino con “Bastardi senza gloria”? Chissà.

Chiara Orefice

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Chiara Orefice

Classe '92, Chiara Orefice si è laureata in Linguistica a Roma. Ha un bizzarro rapporto con la lingua italiana, l'università e gli intrecci inverosimili, ma il tempo in qualche modo lo impiega.

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