Beksinski, il pittore degli incubi

Beksinski, gli inizi

Zdzislav Beksinski nacque a Sanok, nel sud della Polonia, nel 1929. La sua infanzia fu molto difficile, perché durante l’occupazione tedesca della Polonia fu costretto a studiare e diplomarsi presso un liceo clandestino. Nel 1947 si iscrisse alla facoltà di Architettura dell’Università di Cracovia, più per seguire le volontà del padre che per vocazione. E infatti odiò profondamente il lavoro che fece dopo la laurea, ovvero il supervisore di cantieri. Beksinski

La vera vocazione di Beksinski era l’arte. A partire dal 1958 cominciò a scattare fotografie. E le fotografie contenevano già in nuce alcuni caratteri, alcune atmosfere che lo resero famoso per i suoi dipinti; Beksinski fotografava paesaggi desolati, bambole mutilate, donne col volto bendato. Insomma, il suo stile era fuori dal comune, trasmetteva un’immensa angoscia.

Purtroppo l’angoscia trasmessa dalle opere strideva con l’immagine di ordine, felicità e austerità che l’arte doveva trasmettere in uno stato comunista, dunque dovette attendere molto tempo prima di poter fare una mostra nel suo paese.

Beksinski nominò Periodo Barocco della sua arte quello dominato dalla fotografia e dalle sue mostre in Polonia e in tutto il mondo.

Il periodo Gotico

Dopo il 1971, comincia quello che Beksinski definì Periodo Gotico. Da un po’ di tempo egli stava cominciando a dedicarsi alla pittura ad olio su masonite e mettendo da parte la fotografia, ma dopo un evento traumatico i caratteri macabri e angosciosi della sua arte si accentuarono sensibilmente. Beksinski

Avvenne che l’automobile dell’artista si bloccò proprio sui binari di un un passaggio a livello senza barriere. Il treno travolse la vettura e l’incidente fu spaventoso, ma Beksinski se la cavò con tre settimane di coma. Qualcosa in lui però era cambiata per sempre. Beksinski

Egli si svegliò dicendo di aver visto l’inferno. E da quel risveglio si sentì costretto a dipingerlo. Ebbe tre settimane di sogni coscienti, probabilmente, e tanto bastò per costringerlo a dipingere ciò che aveva visto tra la vita e la morte.

Si racconta che egli si svegliasse nel cuore della notte e che andasse nel suo studio, a dipingere chinato su un tavolo posto orizzontalmente mentre ascoltava musica classica. Beksinski Forse continuava ad avere incubi relativi al coma, forse non riusciva a vivere una vita del tutto normale dopo quel trauma. Sta di fatto che egli aveva bisogno di dipingere. Probabilmente sentiva la sua dedizione all’arte come una terapia, e raffigurava i suoi incubi per dare ordine ad essi, per razionalizzarli, per impastare in maniera uniforme quella materia magmatica grezza che attraversava la sua mente di artista.

Infatti la sua grande ambizione era che il fruitore delle sue opere si sentisse come proiettato in un sogno. In un’intervista dichiarò che voleva “dipingere il sogno”. Dopo qualche anno, nel 1972, organizzò la sua prima grande mostra in Polonia. Ma non si presentò alla presentazione della mostra, forse come gesto simbolico. Per Beksinski l’arte bastava a se stessa, tanto che non dava nemmeno titoli alle sue opere. Beksinski

Il riconoscimento nazionale ci fu tardi, ma ci fu: nel 1975 fu definito da una commissione “Miglior artista dei primi trent’anni della Repubblica Polacca”

Le ultime tragedie

Dopo la morte della moglie nel 1988 e il suicidio del figlio, avvenuto nel 1999, si chiuse in se stesso, dedicandosi alla computer grafica. Decise, dopo la morte del figlio, di dipingere le copertine degli album della band The legendary pink dotsdella quale suo figlio era fan.

Morì assassinato dal figlio del suo maggiordomo nel 2005, per un prestito che non aveva voluto concedere al ragazzo. Bsksinski

Quest’anno, nel decennale della sua morte, a Cracovia è aperto un museo dedicato a lui, curato dal collezionista Piotr Dmochowski.

La sua arte continua a vivere e continua a bastare a se stessa, regalando un mondo spettrale, angoscioso e gotico, ma pur sempre un mondo da esplorare col cuore nudo e con la guardia abbassata, per affrontare apertamente le proprie fragilità.

 

Luigi De Maria