Visioni dell’Indocina francese: Marguerite Duras

Nel 1984, a coronamento di un’eccezionale attività letteraria, l’ormai settantenne Marguerite Duras dà alle stampe il romanzo semi-autobiografico “L’Amant”, in cui riprende con qualche modifica una parentesi della sua vita, da ragazza, nell’attuale Vietnam, all’epoca una colonia francese. Figlia di due insegnanti all’opera nella civiltà rurale intorno Saigon, rimasta orfana, viene affidata ad un collegio, dove incontra un giovane cinese figlio di proprietari terrieri, divenendo la sua amante; conclude forzatamente la sua prima storia d’amore a 18 anni, quando viene rimpatriata in Francia per proseguire gli studi.

La storia e l’io narrante

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Jane March nell’omonima versione cinematografica di J. Annaud (1992)

Nel romanzo la giovane narratrice, che non rivela il proprio nome, vive con la madre e i suoi fratelli nel pensionato di un istituto di lingua francese a Sadec, non lontano da Saigon. Di ritorno a casa, viene notata e avvicinata da un auto nera, dove un giovane e ricco cinese, proveniente dalla zona di Cholen, si offre di accompagnarla a casa. La ragazza accetta. In auto viene osservata lungamente, nella sua figura di adolescente dalle labbra con troppo rossetto, mentre indossa un abitino ed un cappello da uomo a tesa nera, eccentrico contrasto a renderla unica tra le popolane.

Da quel giorno i due diventano amanti, dapprima segretamente, poi palesandosi nei loro incontri. La giovane è costretta a fare i conti con le maldicenze dell’istituto, voci  che giungeranno alla madre. La donna, in cattive condizioni economiche, acconsente alla relazione solo quando scopre che la figlia riceve del denaro dall’uomo, la quale prova un piacere perverso alla sensazione di prostituirsi.

Non proseguiamo oltre con la trama. Molte cose possono essere svelate esaminando anche solo un breve passaggio:

Scendo dalla corriera. Vado verso la balaustra. Guardo il fiume. Mia madre mi dice talvolta che mai più in tutta la mia vita vedrò dei fiumi tanto belli come questi, tanto grandi, tanto selvaggi, il Mekong e i suoi affluenti che scendono verso gli oceani, quelle distese d’acqua che spariranno nel grembo degli oceani.
[…] Nella corrente terribile guardo l’ultimo momento della mia vita. La corrente è così forte, avrebbe portato via tutto, come delle pietre, una cattedrale, una città. C’è una tempesta che soffia all’interno delle acque del fiume. Del vento che si dibatte.

Je descends du car. Je vais au bastingage. Je regarde le fleuve. Ma mère me dit quelquefois que jamais, de ma vie entière, je ne reverrai des fleuves aussi beaux que ceux-là, aussi grands, aussi sauvages, le Mékong et ses bras qui descendent vers les océans, ces territoires d’eau qui vont aller disparaître dans les cavité des océans.
[…] Dans le courant terrible je regarde le dernier moment de ma vie. Le courant est si fort, il emporterait tout, aussi bien des pierres, une cathédrale, une ville. Il y a une tempête qui souffle à l’intérieur des eaux du fleuve. Du vent qui se débat.¹

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Il fiume Mekong oggi

Le due vite di Marguerite Duras

Questo passaggio evidenzia almeno due temi cari all’autrice: innanzitutto, un disagio legato alla malinconia del rievocare i paesaggi dell’infanzia. Duras è cressciuta tra Sadec e la cittadina di Vinh Long, e la sua lingua madre è stato il vietnamita. Ha vissuto l’infanzia tra gli autoctoni, sentendo di appartenere di diritto a quella “race jaune”, razzia asiatica, che in quegli anni la Francia cercava di colonizzare. In seguito, con l’età della ragione, le è stato imposto, dalla madre stessa, l’apprendimento della lingua francese, con la rivelazione di appartenere a quella “race blanche” degli invasori. Una conversione che, prova di un carattere fortissimo, sarà senza ripensamenti, ma che presenta una rivalsa tutta personale.

La prosa di Marguerite Duras è personalissima ed elaborata, scegliendo lei di utilizzare un francese ricalcato su strutture sintattiche e sonorità proprie del vietnamita, sua lingua di elezione e considerata molto più immediata e musicale. Si tratta, come sostiene C. Bouthors-Paillart, di una “langue métisse”, una lingua meticcia, frutto della sua dissidenza nei confronti di un’identità etnica e culturale imposta, in primis dalla madre vista solo come un’insegnante che come la culla dei propri valori natali. In questo modo, una doppia identità, un contrasto colmo di rimorso infesta la mente dell’autrice, che prende vita attraverso una scrittura dolce e selvaggia allo stesso tempo, continua espressione di un’identità che si distrugge e si rigenera in continuazione.

Un altro tema è invece quello delle spire della storia. Come la corrente di un fiume, come afferma M. Borgomano, i personaggi di Marguerite Duras sono travolti dalla Storia senza farne parte, vivendo le proprie azioni come guardandosi dal di fuori. Si tratta di uno sguardo straniato, incosciente, simile appunto a chi viene portato via da una corrente molto più forte di lui.
Nel romanzo ne abbiamo prova nella conclusione: i due amanti si separeranno dopo essersi ripetuti più volte, con distaccata brutalità, di non amarsi e di essersi soltanto usati reciprocamente; sarà solo dopo la partenza della giovane, che osserverà con più chiarezza ciò che gli è capitato, e riconoscerà finalmente i sentimenti di quello che è stato il suo primo amore nella selvaggia terra dell’Indocina.

Daniele Laino

Bibliografia:
¹Duras M., L’Amant, 1984, Éditions de Minuit, p.17.
Bouthors-Paillart C., Marguerite Duras et l’autre langue, 2002.
Borgomano M., Marguerite Duras, 1988.