Debuttò come scoperta di Derek Jarman in “Caravaggio” (1986), e rimase la sua musa fino alla morte del regista stesso, partecipando non solo a moltissimi dei suoi film (citiamo solo “War Requiem” – 1989; e “Edoardo II” – 1991), ma anche al vero e proprio testamento che egli lasciò con “Blue” (1993). Fu un periodo indubbiamente significativo per la Swinton, che esercitò il suo gusto per la sperimentazione e lo “strano”; per le pellicole composte di idee lentamente esposte, quasi solo lasciate cadere per essere raccolte; per l’estetica perfino barocca, tra innesti ed elementi di disturbo.
Già nel 1992 era uscito “Orlando” (Sally Potter) che aveva contribuito ancora più di Jarman a fare di Tilda Swinton l’icona dello “strano”: interpreta infatti Orlando,
Se almeno si degnasse di essere un’attrice pessima in quei film mainstream in cui accetta di recitare, potremmo avere qualcosa da rimproverarle. Ma prendiamo ad esempio “Le Cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio” (Andrew Adamson – 2005): la strega bianca di Lewis sembra aver messo un piede fuori dalle pagine ed essersi tirata su per concedersi alla macchina da presa. Alta come un uomo, ossuta, pallida, quasi senza labbra e senza ciglia: uno spettacolo per gli occhi, come la sua voce dura e appena tremante nelle note alte è un’esperienza da far provare alle orecchie.
Se in “The Zero Theorem” (2013) Terry Gilliam la rende intelligenza artificiale di un mondo distopico, Jim Jarmush la vuole elegante e triste custode della bellezza prodotta nel passato dall’uomo in “Solo gli amanti sopravvivono” (2013).
Proviamo a concludere citando un’altra collaborazione straordinaria: quella tra Tilda Swinton e Wes Anderson. Non c’è dubbio che l’approccio di quest’ultimo sia diverso da tutti gli altri: l’aura magica e fredda che avvolge la Swinton si infrange, per l’apparente delizia di entrambi, contro le atmosfere coloratissime e cartoonesche di Anderson. Chi avrebbe mai osato posare quel volto da regina delle nevi nel delizioso “Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore” (2012) fatto di fari, spiagge e costumi colorati? Chi ne avrebbe fatto il centro delle caratteristiche inquadrature simmetriche, con indosso cappello e cappotto in tinta unita, severo e ridicolo al tempo stesso? E chi, due anni dopo, l’avrebbe trasformata in una vecchissima signora, morta in modo un po’ scomposto in “Gran Budapest Hotel” (2014)? Be’, Wes Anderson.
C’è chi si lancia nell’ispirazione che la figura bianca di Tilda Swinton dona alle menti, e c’è chi invece pare volerla mettere alla prova nel trasformare le sue forme quasi aliene in materia umana quotidiana.
Forse nessuno riesce mai nel proprio intento, e il risultato rimane per tutti sconosciuto in partenza: salta poi fuori, alla fine, come un impasto di sceneggiatura, interazioni imprevedibili, e personali apporti di una sempre divertita, irriverente, “strana” Tilda Swinton.
Chiara Orefice
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