La canzone al Metauro di Tasso: la vita è una tragedia

La canzone al Metauro è una poesia composta da Tasso nel 1578. Il poeta si sente perseguitato dalla sfortuna, e la morte gli sembra l’unica via d’uscita

“O del grand’Apennino/figlio picciolo sì ma glorioso/e di nome più chiaro assai che d’onde/fugace peregrino/a queste tue cortesi amiche sponde/per sicurezza vengo e per riposo”[1]

La canzone al Metauro
Torquato Tasso

Una vita da peregrino, uno spirito irrequieto. In letteratura Torquato Tasso è ricordato come il poeta delle tribolazioni, ma anche dell’assolutizzazione dell’attività di poeta. Se avesse potuto mostrare apertamente il suo cuore, così come fanno i personaggi di Once upon a time, l’avremmo trovato corroso dall’infelicità e dal dubbio.

La letteratura fu tutta la sua vita, un’esperienza totalizzante che si prese ogni cosa, e in nome della quale egli perse la ragione. L’uomo- poeta e il poeta- uomo: due figure inscindibili e complementari, rappresentative della sua poetica, ricca di sentimento patetico e di una certa altezza di stile, emergono in tutta lo loro prepotenza nella celebre e quantomai commovente Canzone al Metauro.

E dietro le diatribe personali dell’uomo, ecco il poeta che cerca di placare le sue ansie attraverso la penna.

La canzone al Metauro: è tempo di pace

la canzone al metauro
Vittore Carpaccio, Ritratto di cavaliere, forse Francesco Maria della Rovere, 1520

Di tutta la corposa raccolta di liriche tassiane, la Canzone al Metauro è la sicuramente la più famosa. La trama, imbevuta di particolarismi della sua biografia, si configura quasi come una sorta di apologia di se stesso, dove Tasso può finalmente rivelare quali tormenti hanno accompagnato la sua esistenza. La composizione risale all’estate del 1578, al tempo della sua seconda fuga da Ferrara e dall’ordine di Alfonso II d’Este, il quale voleva rinchiuderlo in convento. Deluso dal comportamento di quello che era stato suo amico e protettore, e più in generale disilluso dalla sua intera corte, giunge nei pressi Urbino, ospitato da Federico Bonaventura, sua vecchia conoscenza e collega di studio.

La canzone al Metauro, rimasta incompiuta dopo la terza stanza, ha anche un intento encomiastico; Tasso si rivolge adesso ai duchi della Rovere, vuole essere preso sotto la loro ala protettiva poiché ne ha veramente passate tante, e il bisogno di pace interiore così come il senso di protezione sono diventati necessità impellenti.

L’alta Quercia che tu bagni e feconde

 con dolcissimi umori, ond’ella spiega

 i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,

mi ricopra con l’ombra [2]

Una quercia è raffigurata sullo stemma dei della Rovere, e il poeta rende loro omaggio attraverso l’artificio della metafora, laddove invoca il fiume Metauro che lo bagna con dolcissimi umori. La metafora continua anche quando i rami della quercia, che offrono riparo all’ombra e riposo, sono un chiaro riferimento alla richiesta di Tasso di ricevere la suddetta protezione dai duchi di Urbino, ormai visti come l’ultimo porto sicuro.

L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega

al suo fresco gentil riposo e sede,

entro al più denso mi raccoglia e chiuda,

sì ch’io celato sia da quella cruda

e cieca dea ch’è cieca e pur mi vede [3]

Una vita da peregrino, uno spirito inquieto

Sassel la gloriosa alma Sirena

appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:

così avuto v’avessi o tomba o fossa

a la prima percossa [4]

Abbiamo più volte accennato al fatto che Tasso fosse un animo in pena, ma da che cosa derivavano le sue sofferenze? Se si scava nel suo passato, si scopre una situazione familiare non propriamente felice.

Separato troppo presto dalla sua adorata madre che fu in seguito uccisa, pare, dai suoi stessi fratelli per una questione economica. La mancanza di una patria fissa, di un posto che potesse essere quanto di più simile a una casa, a causa dei continui spostamenti del padre e il rapporto col padre stesso e, come se non bastasse, l’incomprensione delle società del tempo rispetto il suo genio artistico. Tutto ciò gli aveva fatto desiderare di morire.

la canzone al metauro
Lawarence Alma- Tadema, An earthly paradise, 1891

La morte migliore per Tasso sarebbe stata quella che avrebbe potuto avere da bambino, quando era ancora in fasce, quando si trovava ancora nella sua città natale, Sorrento, circondato dall’affetto materno. Se solo si fosse spento allora, tra le lacrime di chi gli voleva davvero bene, avrebbe evitato tutte quelle sofferenze che gli diedero, paradossalmente, la gloria che desiderava.

È tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo che si diffonde il culto di TassoAlcun autori, così come Goethe, furono colpiti dalla personalità di uomo così prostrato dalla vita ma capace di partorire opere divenute gioielli della letteratura. Per questi ultimi, Tasso era una vero modello da seguire, il paradigma perfetto dell’artista in lotta contro le claustrofobiche convenzioni sociali e totalmente devoto alle arti.

Intellettuale di corte, certo, ma non d’occasione. Un uditorio propenso all’ascolto ed eventuali complimenti, ma privi di affettazione. Il concetto che Tasso aveva del poeta non è di semplice subordinazione al mecenate di turno; non è l’intrattenimento vacuo. È un principio assoluto, esigente di un pubblico finalmente all’altezza; capriccioso e dai gusti difficili in quanto conscio del suo potere.

Roberta Fabozzi

Bibliografia

[1] T. Tasso, La canzone al Metauro, vv 1- 4

[2] vv 7- 10

[3] vv 11- 14

[4] vv 27- 30