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Whiplash di Damien Chazelle: analisi del film sul jazz

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Prima prova di Damien Chazelle alla regia, “Whiplash”: stupefacente al punto da guadagnarsi una (doverosa) nomination come miglior film agli oscar 2015.

Passi lenti, pesanti, severi. Fletcher è entrato mentre Andrew Neyman (Miles Teller) si stava esercitando alla batteria. Ha il volto di J. K. Simmons, abbastanza scultoreo e pallido di austerità maliziosa da innervosire anche te, spettatore. Di sicuro Andrew lo è, innervosito. Ora si è interrotto, in soggezione.

“Ti ho chiesto di smettere?”

Tu, spettatore, non hai il tempo di chiederti cosa stia succedendo, chi sia quell’Andrew Neyman, dove si trovi e perché si stia esercitando, né chi sia poi quel sogghignante e glaciale personaggio alla ricerca, come dice, di nuovi membri per la sua orchestra scolastica. Bacchettato anche tu, come lo studente, avrai l’impressione che ti sia stato urlato un brusco “zitto, e guarda”.

Ed ecco, il fascio di luce che finora Damien Chazelle, il regista, puntava solo su quei due nello stanzino buio con la batteria a dividerli, ora si allarga per farti comprendere: siamo in un conservatorio, Andrew suona jazz alla batteria, sa che il passo successivo da compiere è entrare nell’orchestra di quel Fletcher che l’ha sorpreso a suonare.

Ora, sembra essere Fletcher il fulcro della prima parte del film: un J. K. Simmons magnetico, a ragione candidato agli Academy Awards. Pur bassino, pur pelato, pur sorridente, è un uomo che mette paura, e che mette adrenalina, e che aizza alla cieca ferocia irrazionale che serve a lottare.

Spettatore, dimentica il jazz molle e svogliato da piano bar. Quello che Fletcher vuole dai suoi musicisti è lo stato puro, nudo e crudo, del talento strappato via all’occasionalità, al passatempo, alla passione. La musica è uno stato dell’essere, l’unica ragione di vita, senza nulla di piacevole se non in facciata. Una missione di vita per cui vale la pena sanguinare, impazzire.

E la missione di Fletcher è trovare il nuovo Charlie Parker, ed è così difficile in un’epoca in cui il jazz sta morendo: è quasi un salvataggio all’ultimo secondo, o anzi solo un omaggio ad un’arte in agonia.

Proprio perché sta esalando l’ultimo respiro, il jazz di “Whiplash” è vibrante fino allo spasimo, intenso fino alla disperazione, convulso fino allo stordimento… Impregna la pellicola al punto da rintronare, da far battere le dita a ritmo dove capita. E quando è improvvisamente sospeso, è come emergere da un’apnea uditiva, intontiti.

Come sommerso da tutto questo è Andrew, giovane e inesperto. Ma ecco che c’è un cambio di marcia, e la scena prima dominata da Fletcher ora vede un secondo attore farsi strada, e ingigantirsi per rivaleggiare con il direttore d’orchestra. Negli ambienti ristretti che suddividono il film in microcosmi soffocanti, i visi che si affastellano in fila abbracciando strumenti e spartiti sono moltissimi, eppure di chi ci si ricorda? Solo di musicista e direttore, inferociti, che digrignano i denti.

Ma quel loro duello, che sembra essere tutto per loro, e anche per te, spettatore, è solo una goccia d’acqua rispetto al vortice enorme e travolgente che è quell’indispensabile, impellente fine maggiore: trovare chi farà da nuovo caposaldo per la storia del jazz.

Chiara Orefice

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Chiara Orefice

Classe '92, Chiara Orefice si è laureata in Linguistica a Roma. Ha un bizzarro rapporto con la lingua italiana, l'università e gli intrecci inverosimili, ma il tempo in qualche modo lo impiega.

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