Voltaire l’ottimista e la sommità del male

Tra la grandiosità del bene e la tragicità del male, tra ottimismo e pessimismo, operano i lavori poetici di Voltaire prima e dopo il terremoto di Lisbona.

Autenticamente il Nulla

Inginocchiato, quasi pregando, chino a osservare la maestosità degli eventi, l’individuo non può che avvertire l’abisso che gli si spalanca dentro la Ragione. Come? Il bell’esito cui tutto il progetto umano sembra tendere, l’opera d’arte che pare quasi necessario debba manifestarsi dal marmo informe si ritrova confusa a causa di un singolo, misero evento? Tanto può il male. Chi meglio degli esistenzialisti avrebbe potuto descrivere quel profilarsi d’angoscia dentro l’emotività del soggetto? Un solo esempio: Jean-Paul Sartre, tracciando a principio de “L’Essere e il Nulla” le circostanze per cui il primo può affiorare dalle cose del mondo, scrive che esso sarà scoperto tramite una “via d’accesso immediata”, quale “la nausea, la noia ecc”.

Ecco che proprio il male, dentro una filosofia che osserva acutamente i fenomeni, diviene la modalità più autentica (per utilizzare la medesima terminologia di cui si serve Heidegger in “Essere e Tempo”) per la riscoperta di una metafisica, qualsivoglia luogo occupi tra gli enti mondani; sembra anzi, quello stesso Nulla grazie a cui si scorge l’essenza, il volto più autorevole con cui ai fenomeni sia dato presentarsi. Pare difatti in esso che la “buccia superficiale” (per servirsi del linguaggio sartriano) non abbia primeggiato e sia come decaduta, sconfitta dall’inquietudine di quella che potrebbe chiamarsi “nuda vita”.

Voltaire o L’ottimista

voltaire male
Voltaire tende le mani al sovrano illuminato Federico II di Prussia

Inerme l’individuo è allora agito dalle forze che lo circondano, all’addiaccio, straniero in un ambiente che dovrebbe riconoscere come proprio. È il tema dell’estraneità della figura umana al proprio cosmo, annodato a quello dell’esistenza di un ente quale il male, che l’intero pensiero filosofico di Voltaire sembra custodire, di cui pare curarsi. In maniera differente dalla grande letteratura, i lettori di filosofia (sebbene proprio con Voltaire tale differenza sia quantomeno annichilita dalla natura delle opere di cui fu autore) dovrebbero nondimeno tenere a mente la biografia d’un pensatore, le vicissitudini che l’hanno visto protagonista o spettatore, i torti subiti oppure le concessioni ricevute, le discussioni udite e i dialoghi, pure libreschi, compiuti.

Come può quest’ultimo non subire l’influenza giammai d’un solo contesto, bensì delle migliaia di dinamiche brulicanti che prendono il nome di Storia? Abbraccia, dunque, quasi completamente il ‘700, Voltaire, e prende a chiamare il Male “Bancarotta”. “Entrate nella Borsa di Londra. […] Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta.”. È dal passo citato delle “Lettere filosofiche” (prima “inglesi”) che può meglio comprendersi la molteplicità dell’ottimismo del giovane Voltaire. Il male non sembra contemplato tra le pieghe d’un mondo le cui delizie, come frutti sugli alberi, paiono da cogliere senza alcuna fatica.

La sfavillante civiltà

Si leggano due poemetti (da poeta, il filosofo intraprese la propria carriera, tanto che Rousseau scrive di lui, in una lettera del 1745 come del “toccante Voltaire”) dalle trasparenti titolazioni: “Il Mondano”, del 1736 e la “Difesa del Mondano”, dell’anno successivo appena. In essi non c’è che da ringraziare la “saggia natura”, abitare come beati un’età dell’oro che dell’idillio edenico può nient’altro che farsi beffe. Ecco che Adamo ed Eva non divengono che degli idioti, ghiottoni i cui impulsi valicano il confine dell’umanità e la cui figura si conforma a quella degli animali con cui abitano.

Neppure troppo sottilmente, l’autore suggerisce che oltre le pulsioni vi sia l’abito della civiltà, del commercio, dove all’oblìo si sostituisce “la sfavillante schiuma” del vino. Non può dunque, l’individuo non dimorare con gaiezza nel mondo, sì tenendo conto del confinamento cui lo relega la sua natura mortale, eppure non disperandosi, anzi godendo degli enigmi che l’intelletto presenta (sugli altri: “sono veramente libero?” si legge nel secondo dei “Discorsi in versi sull’uomo”) e lasciando che, di continuo solleticato, esso non si inaridisca. Acquattato alle spalle della letizia, tuttavia, il male attende per apparire in forma d’evento funesto.

Il Male naturale

voltaire maleTerribili, a volte, le tradizioni: durante la festa d’Ognissanti del primo novembre 1755, i cattolici di Lisbona avevano fatto gremite le chiese perché Dio riponesse nei loro animi più speranza di quanto, umani, avvertissero. Si presume che il terremoto li abbia colti di sorpresa, così come le macerie che per la città appena qualche attimo indugiavano a mezz’aria prima di venir giù con insopportabili tonfi. Innumerevoli le vittime. Con che occhi osservare allora un evento così abile nel lacerare quello che a tutti gli effetti appariva, per seguire i precetti della teodicea di Leibniz, il “migliore dei mondi possibili”?

Com’ebbe a scrivere lo stesso Voltaire questo sembrava davvero “un ottimo argomento” contro il “tutto è bene”. Era adesso tutto male? Non v’era più alcuna luce? “Tutti gli esseri dotati di sensi […] vivono nel dolore e muoiono come me”, appunta Voltaire nel proprio “Poema sul disastro di Lisbona”, pubblicato in una inedita quanto inspiegabile traduzione in prosa da Livio Crescenzi per Mattioli1885, insieme con un’interessante lettera di risposta per firma di Jean-Jacques Rousseau.

Una preghiera, una speranza, un proposito

Pur tuttavia è con una preghiera per bocca di un califfo morente che si conclude il poemetto (di cui è consigliata la lettura nell’ottima traduzione a cura di Enzo Cocco per l’editore Il Ramo in un volumetto dal titolo “Il Sommo Male”), dove un’espressione sorprendente prova un’insurrezione contro il desertico annichilimento che ha seguito la tragedia: speranza. Non teorico impeto, bensì animato dentro la vita pubblica. La sua miglior descrizione? L’epilogo del romanzo “Candide”.

Dove la disgrazia ha lacerato l’ottimismo del protagonista, non v’è che una risoluzione all’interrogativo sulla più efficace arma di cui servirsi per contrastare il male, una risoluzione in cui la vita pratica prenda carico dell’umanità intera: “il faut cultiver notre jardin”, dichiara a mezza bocca Candide, “dobbiamo coltivare il nostro giardino”.

Antonio Iannone

VOLTAIRE, La felicità mondana, a c. di E. Cocco, Il Ramo; ID, Il sommo male, a c. di E. Cocco, Il Ramo; ID, Il terremoto di Lisbona. Con una lettera di Jean-Jacques Rousseau, a c. di L. Crescenzi, Mattioli1885; ID, Candido o L’ottimismo, a c. di G. Iotti, Einaudi.

J.-P. SARTRE, L’Essere e il Nulla, trad. di C. del Bo, Il Saggiatore.