La “personalità” del diavolo: quale fisionomia?

Nell’arduo compito di identificare la realtà del demoniaco, la dottrina cattolica ha utilizzato il termine di persona, ma qual è la portata e quale il significato di questa affermazione? Bisogna innanzitutto riconoscere che l’intero discorso teologico sulla figura del diavolo è gradualmente scivolato in un lento ma inesorabile oblio.

Le cause di questo accantonamento, avvenuto in modo consapevole o meno, sono complesse e concatenate fra loro. Possiamo individuarne alcune pensando alla rivoluzione metodologica avvenuta in teologia tra il XIX e il XX secolo; ad una volontaria presa di distanza di fronte ad una demonologia ipertrofica e priva di fondamento; infine, nel dialogo e confronto con le istanze della cultura odierna.

L’esito è il seguente: voler ascrivere l’origine del male ad un agente metaempirico e quindi al di là dei fenomeni osservabili, sembra essere oggi un profondo motivo di imbarazzo per il cristiano. Quasi che in un mondo ormai adulto ed emancipato da credenze e superstizioni, riconoscere il diavolo come essere personale, vada di pari passo con l’evocare le figure fiabesche della fantasia infantile.
Ovvio quindi che di fronte al già gravoso compito di difendere la ragionevolezza di una fede percepita dal postmoderno come anacronistica, si tenti di nascondere argomenti così lontani dalla sensibilità culturale del nostro tempo come quello del diavolo.

La popolarità del demoniaco

È incredibile però notare quanto questo tema che è stato relegato ai margini della discussione teologica, sia divenuto invece popolare al suo esterno. Il diavolo, solo per fare esempio, continua ad essere il protagonista di pellicole horror dalla cadenza ciclica e questo è solo il sintomo di una realtà ben più preoccupante. Il demoniaco rifiutato dalla ragione credente, dalla catechesi e dall’omiletica che avrebbero potuto parlarne in maniera equilibrata, è andato ad alimentare incubi e paure collettive, tanto che in psichiatria, fra i vari deliri, è frequente quello di tipo religioso.

Venendo meno la sana relativizzazione teologica del male per la vittoria pasquale di Cristo su ogni sua manifestazione, esso sembra assumere una consistenza ed uno spessore preoccupanti. Il pericolo di dualismo, di considerare cioè bene e male come due principi equivalenti, è sempre in agguato.

Possiamo dire che la sensibilità comune è lontana dalle parole di G. L. Müller:

diavoloNon c’è nessuna ragione per una fede nel diavolo a sé stante o per un timore dei demoni [a motivo della vittoria di Gesù Cristo sulle potenze del male]. Il diavolo non è mai neppure un motivo per giustificare il fallimento della libertà umana, poiché egli non può introdursi nell’autonomia personale ed etica dell’essere umano.

Un’argomentazione seria come quella del Teologo tedesco sembra proprio essere l’antidoto efficace per evitare che il demoniaco inizialmente rimosso finisca per dominare la sfera delle paure e dell’irrazionale.

Infatti, la tradizionale definizione del diavolo come essere personale, se ben compresa, ha un grande potenziale teoretico e liberatorio. Individuare nel diavolo l’origine del male conduce al doppio guadagno di evitare che esso sia assolutizzato come principio ontologico contrapposto a Dio, o banalizzato come la mera somma di fattori psicologici, biologici e sociali. Ovvero, l’uomo può essere tentato al male ed aderirvi, ma non ne è lui l’artefice, è una realtà che lo precede e lo supera. Perciò è proprio l’esistenza del demoniaco a salvaguardare l’uomo dall’essere definito demoniaco e quindi incapace di conversione, di cambiamento.

Il diavolo come persona

Ma che cosa significa pensare il diavolo come essere personale? Per evitare rischiosi fraintendimenti e scivolare nel grottesco, bisogna innanzitutto chiarire che qui il termine persona è utilizzato in via analogica e non antropomorfica.
Se così si spazzano via tutte le immagini pittoresche di esseri caprini ed amanti delle temperature elevate, si ottiene però la possibilità di descrivere meglio la fisionomia del diavolo, il suo vero volto.
Se la persona, da qualsiasi prospettiva la si guardi (biologica, ontologica, psicologica etc.) è per definizione un essere relazionale, ecco delinearsi la natura del demoniaco.

Esso è il radicalmente arelazionale e quindi privo di volto, avendo rifiutato la possibilità di ogni dialogo e quindi di ogni ragione, è l’assurdo, il vuoto, in una misura che trascende ogni possibilità di immaginazione. Infatti, secondo J. Ratzinger l’analogia personale deve essere pensata in negativo. In questi termini, il demoniaco diventa riconoscibile proprio per:

diavolo …la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell’essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l’inconoscibilità sia la sua forza vera e propria…

Il testo del teologo che sarebbe divenuto pontefice fornisce un chiaro esempio della ricchezza dell’ermeneutica dei dogmi e mostra quanto grandi possano essere le sue potenzialità.

Christian Sabbatini

Fonti

Immagine in evidenza: www.stampe-antiche.com

Immagini media: www.stampe-antiche.com, www.compagniadeiromei.it,  beetleinabox.tumblr.com

M. Kehl, “E Dio vide che era cosa buona”. Una teologia della creazione, Queriniana, Brescia 2009 (Biblioteca di teologia contemporanea, 146), 352-357.

Citazioni (sempre in M. Kehl, vedi sopra):

J. Ratzinger, Liquidazione del diavolo?, in Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 2005 (Biblioteca di teologia contemporanea, 19), 196.

G. L. Müller, Dogmatica cattolica, San Paolo, Cinisello B. (Mi) 1999, 124.