Raymonde Linossier, la partigiana di sé stessa

Il “modello Raymonde”

“Persino il manichino femminile di cera Raymonde che andavo a vedere ogni giorno per ammirarne le calze a rete e la punta color stelo di rabarbaro come vuole la moda di Parigi”. Nell’oceano del corpo rumoreggiante, che esprime l’allarme di una voce senza oggetto per mezzo di nonsense, esclamazioni onomatopeiche ed enti cui è stata donata l’anima del linguaggio si dirama l’“Ulisse” di Joyce. È forse nell’episodio a parodia della scrittura drammaturgica che prende il nome di “Circe”, di cui è riprodotta una citazione, che l’opera descrive al meglio i propri intenti. Appare quasi sussurrato, quel nome, nel turbinio d’una perdizione orgiastica dove convivono in profluvio strepiti e fantasticherie. A chi appartiene, dunque, il nome “Raymonde”?

La signorina Linossier (Raymonde, per l’appunto) trascrisse a macchina per pochi mesi il capolavoro joyciano, come del resto altre otto segretarie cui il dublinese aveva lasciato il compito di render pubblica la propria destrutturazione della cultura occidentale. Raymonde, capelli che di poco oltrepassavano le orecchie, saldò in tal modo la propria figura a un’opera di così energica rilevanza. Statuaria, al pari d’ un modello per sarti, attraversava Parigi dalla libreria “Shakespeare&Company” di Sylvia Beach, al numero 7 della rue de l’Odéon, in cui la titolare Adrienne Monnier aveva fatto de “La maison des amis des livres” il crocevia della cultura francese.

Gli sguardi su Raymonde

raymondeSi potrebbe, in effetti, descrivere l’intera esistenza di Linossier, corporale come artistica, attraverso lo sguardo di chi, nel corso della sua fulminea vita mortale, cessata ad appena trentatré anni il 30 gennaio 1930, ha con lei gioito e passeggiato. Primo fra tutti (come si potrebbe altrimenti?) il compositore Francis Poulenc, che di Raymonde fu amico fraterno, a lei strappato dalla morte prima che la timidezza lasciasse spazio all’audacia e gli permettesse una dichiarazione d’amore, altresì prima che egli abbracciasse l’omosessualità pur conservando della donna un ricordo dolorosamente nostalgico in forma di rappresentazione fotografica.

Ancora, il poeta Léon-Paul Fargue di cui Raymonde conosceva interi versi a memoria e di cui divenne presto confidente: per lui, quella ragazza era una “violetta nera”, come recita un capitolo del memoriale “Le piéton de Paris”. “Ogni volta che mi sento in difficoltà”, scrive accorato Fargue, “che ho qualche sostanziale esitazione […] penso a voi, Raymonde […].”.

La succitata Beach, inoltre, che ricorderà la ragazza quale promotrice del “Movimento Egocentrista” per mezzo di quel suo tanto grazioso libriccino dal nome di “Bibi-la-Bibiste”. Perché tutti questi sguardi, queste parole d’altri che rischiano di disperdere la figura di Raymonde Linossier dietro penne differenti, dissimili voci?

Bibi-la-Bibiste o Il Destino

È in quel libretto che si legge: “-Ah, il naso mi pizzica! – ella esclamò. -Un vecchio ti ama, -risposero le compagne interrompendo il loro canto.”. Così, per bocca d’altri si conforma il Destino (o la Provvidenza, come accortamente annota l’autrice a piè pagine “se il romanzo fosse stato destinato a credenti”) della giovane protagonista, la cui nascita “fu simile a quella degli altri bambini” ma di cui eccezionale fu la morte. Quattordici pagine, retro e copertina comprese, perché sia descritto l’impulso amoroso che ritrova espressione in quel sangue nero del capitolo “Adolescenza”.

Soltanto felicemente si può chiacchierare con il Destino, ricercando nella realtà, nei volti dei passanti qualcuno che reagisca a un richiamo di una pur altra bocca. Uno sguardo è abbastanza: il destino è onorato o tradito. Non d’intralcio, la brevità, i pochi cenni alla persona di Bibi, basti invece riconoscere ch’ella era la più eroica delle “partigiane” di sé stessa. È questa, difatti, l’interpretazione che Sylvia Beach propone del bislacco titolo dell’opera. Cinque capitoli, dunque, per altrettanti atti d’una esistenza umana, che a trascriverli interamente non si occuperebbero che una trentina di righe.

<<O tè un janti!>>

raymonde
Una buffa immagine di Francis Poulenc e Raymonde Linossier al parco.

“Interessa però soprattutto notare come, per attenersi al senso un po’ individualista del ‘bibismo’, la Beach aveva trovato l’estrosa soluzione di ‘selfismo’”, si legge nell’edizione italiana del romanzo, edita da Stampa Alternativa per mano di un preciso lavoro qual è quello che il curatore Antonio Castronuovo presenta ai lettori, insieme con una cospicua appendice di testi a memoria di Raymonde Linossier.

Ancora Sylvia Beach presenta l’opera (persino quella autobiografica) di Linossier quale prodromo di quell’arte della distruzione che fu il dadaismo, la cui istituzionalizzazione attraverso il “Manifesto” edito da Tristan Tzara nel 1918 intesse con lucida crudezza propositi e invettive a descrizione dell’inanità dell’opera d’arte come dell’agire artistico. Priva di brutalità operava tuttavia Raymonde insieme con i membri del circolo di cui era parte, i Potasson, per mezzo della gentilezza, anzi. Poulenc, Satie, Beach, persone di cui si poteva dire “<<o tè un janti>>, frase omofonica per <<oh, tu sei gentile>>”, appunta Castronuovo.

Lontana dalla furia dilaniatrice della rivoluzione dada, il bibismo e lo spirito di chi se ne fece discepolo insieme con Raymonde era molto più che felice: lieto, d’una gaiezza che pure nei disinganni e nei sipari serrati non poteva che ritrovare la “potenza magica d’uno sguardo amoroso”.

Antonio Iannone

Bibliografia

J. Joyce, Ulisse, trad. it G. De Angelis, Mondadori.
Il testo di “Bibi-la-Bibiste” e tutti gli altri citati sull’argomento appaiono in: R. Linossier, Bibi-la-Bibiste, a c. di A. Castronuovo, Stampa Alternativa.