Da Bianca a La messa è finita: l’amore per Nanni Moretti

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È così che Don Giulio (interpretato da Nanni Moretti), nel film La messa è finita, risponde alla domanda del padre a proposito dell’amore universale:

«Stavo pensando all’amore universale: esisterà veramente? Voi preti cosa ne pensate? – Noi preti pensiamo di sì. E io anche».

L’amore e il dolore

L’amore, anche in una qualsiasi delle sue infinite forme, è ciò che dà senso alla nostra esistenza.

Ed è il dolore, profondo e insuperabile, la risposta che del nostro animo alla scoperta, o anche solo alla minaccia, di un’impossibilità d’amore (di amare e di essere amati), o di una sua fine.

Il dolore non solo è la risposta all’impossibilità di un amore, ma anche ciò che lo accompagna. È l’altra faccia dell’amore, ciò che delimita il suo orizzonte.

L’impossibilità di raggiungere l’assolutezza di un amore, o di un’amicizia è, ad esempio, il tema di un altro splendido film di Moretti: Bianca. In Bianca il protagonista si oppone a tutto ciò che mira a incrinare una felicità tanto perfetta quanto impossibile: un no a qualsiasi fluttuazione, una difesa assoluta dal dolore.

«Io decido di volere bene, scelgo. E quando scelgo è per sempre».

Un no preventivo all’amore con Bianca, perché è nelle fasi iniziali di una storia d’amore che è scritta già la sua fine.

La forbice fra pretesa di assoluto e l’impossibilità del suo raggiungimento è sempre radicalizzata dall’amore. Perché l’amore è fragile e dispersivo e, quindi, è sempre in discussione.

Ed è infatti con l’affermazione che è «triste morire senza figli» che Moretti decide di chiudere il film, la solitudine è il destino di chi ha speso la propria vita a rincorrere l’assoluto.

Da Bianca a La messa è finita, l’amore per Moretti

Ma l’amore di cui parla Moretti in La messa è finita non ha nulla a che vedere con l’eros, né con l’amour-passion della letteratura cortese e rinascimentale (dell’amore passionale e inarrestabile che conduce a una morte).

L’amore che Moretti cerca in La messa è finita è un amore cristiano evangelico che è spontaneo e non ha nulla a che fare con una specie di giustizia distributiva che riserva l’amore agli amici e l’odio ai nemici.

Ma, come si è già detto, è nelle fasi iniziali che si inscrive già la fine: Don Giulio, prima di abbandonare l’isola per tornare a Roma celebra un matrimonio in cui augura «di vivere in gioia. È una grande virtù e un grande dono. Non siate mai tristi. Conservate la gioia e non abbandonatela mai».

È in questo augurio che si nasconde il timore, o la certezza, che quella gioia è solo un orizzonte (difficile) di una infinita ricerca e moto dell’animo che non può che essere un’oscillazione continua tra pienezza e senso di mancanza.

In questo film, dall’amore impossibile per l’altro (Bianca) si passa a un amore impossibile per gli altri: l’amore di Giulio sfuma nell’impossibilità di comprendere la sofferenza degli altri.

Le diverse posizioni sull’amore descritte nel film ne sottolineano i tratti di dissoluzione e di autodistruzione, piuttosto che la sua natura divina e di slancio autopoietico proteso verso l’immortalità.

Quando non è sesso, di cui autocompiacersi (il prete spretato), o di cui ridere (l’allievo al corso prematrimoniale), o di cui temere (la sorella o l’amico omosessuale), l’amore non c’è e di esso rimane solo il nome astratto.

Nonostante l’impegno nel cercare di porsi da mediatore fra il piano umano e quello soprannaturale, Don Giulio non riesce a portare a compimento la propria missione: nessuno dei rapporti bilaterali che il prete istituisce riesce a tradursi in un rapporto nel quale l’amore scambievole tra gli uomini è il corrispettivo dell’amore divino.

Nessuna reale conversione di anime a Dio è possibile, nessuna penitenza, somministrata con il sacramento della confessione, riesce a condurre alla comunione tra gli uomini. Ed è per questo che la messa finisce senza che sia celebrata l’eucarestia, senza che, quindi, i segni più visibili del sacramento più importante siano riusciti a manifestare l’amore universale.

L’approdo, come in Bianca, è di nuovo la solitudine: Don Giulio andrà di nuovo via da Roma per raggiungere un paese in cui c’è un vento che «fa diventare pazzi» e dove la follia è forse l’unico sollievo a un dolore divenuto troppo forte.

Al fallimento del protagonista si risponde con un balletto finale (sulle note di Ritornerai di Bruno Lauzi[1]) che rende indiscernibile il confine tra visione realistica e stato onirico: l’autenticità del rapporto d’amore si estenua nella pura esteriorità della danza e sul volto del protagonista si disegna uno splendido sorriso, umano e consapevole.

«Io credo nella felicità: credo che la vita sia fatta per la felicità e non per il dolore. E penso che la solitudine non dia la felicità».

Cira Pinto

Bibliografia essenziale:

Umberto Curi, Lo schermo del pensiero.

Roberto De Gaetano, Nanni Moretti – Lo smarrimento del presente.

Simone Isola, Diario di un autarchico.

[1] Nanni Moretti è uno dei registi più attenti e sensibili nella scelta delle colonne sonore. La messa è finita vanta di essere il primo film della splendida collaborazione con Nicola Piovani.

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Cira Pinto

Cira Pinto, nata a Torre del Greco l'8 dicembre del 1990. Cresciuta tra le videocassette Disney e le ginestre che tanto hanno ispirato Leopardi, decide il suo futuro accademico guardando ''Biancaneve e i sette nani''. Laureata al corso di laurea magistrale in Filosofia presso l'Università di Napoli Federico II con una tesi in Filosofia Morale dal titolo ''Il cinema come arte del tempo. l'analisi deleuziana, tra classicità e modernità''. Ha frequentato il corso di Analisi e critica cinematografica e quello di Sceneggiatura alla scuola di cinema, televisione e fotografia Pigrecoemme. Collabora con LaCOOLtura da gennaio 2015.

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