George Miller approda a Hollywood con dieci nomination e un ritorno alle origini, al suo amato Mad Max, dopo una parentesi lunga circa trent’anni, potendo tra l’altro gloriarsi degli osanna sia del pubblico che di una grandissima parte della critica (meritati, per quel che riguarda chi scrive).
L’Oscar, George Miller, l’ha già vinto con “Happy Feet”: fu il miglior film d’animazione nel 2007. Ora, è più che altro per abitudin
Mad Max
La forza di una trilogia retta da un personaggio è il personaggio stesso.
Non si tratta di un orso dalla scorza dura e il cuore morbido: Max è davvero un elemento del tutto estraneo al mondo dei buoni, così come alla pietà per i nemici o a finali dimostrazioni di affetto per un’ultima inquadratura che intenerisce gli animi. Max è dispotico, scorbutico, violento. Quel che non gli riesce è essere anche egoista.
Probabilmente tutto quello che lo tiene ancorato al bene è la parte più negativa e buia della sua mente: soprattutto il ricordo della sua famiglia e dell’alta considerazione che sua moglie aveva di lui come protettore e vendicatore degli innocenti, oltre poi al senso di colpa per aver indirettamente ucciso chi amava.
La chiave di interpretazione del personaggio è il nomignolo che gli viene affibbiato dal titolo originale, “Mad”. In italiano spesso viene tradotto semplicemente con pazzo, ma vuol dire di più.
Mad significa innanzitutto cieco di rabbia, furioso. Il Max ancora “sano” del primo capitolo paventa la follia di chi vive sulla strada, ma ancora non ne è vittima – né si può dire
La mia vita si spegne e la vista si oscura. Mi restano soltanto dei vaghi ricordi di un caos immane… i sogni infranti delle terre perdute. E l’ossessione di un uomo sempre in lotta. Max.
Era figlio dei tempi in cui il mondo viveva sotto il dominio dell’oro nero e i deserti brillavano per le fiamme delle gigantesche torri che estraevano il petrolio. Ora tutto è distrutto, scomparso.

Il quarto capitolo
Il quarto capitolo rappresenta una piccola rivoluzione all’interno della saga.
Ciò che era semplicemente bello e geniale nei primi film – l’ambientazione, l’idea del petrolio diventato letteralmente unica risorsa e unica merce di scambio, lo stile cyberpunk – diventa protagonista in “Mad Max: Fury Road” (2015).
L’inquadratura è quasi perennemente divisa orizzontalmente in due, mettendo in contrasto i colori volutamente finti e saturati di un deserto giallo-arancio e un cielo azzurro – per non parlare del filtro blu che, più che simulare, rappresenta simbolicamente la notte, portando ai massimi livelli una splendida estetica stramba e surreale.
Gli inseguimenti in auto tra le dune di sabbia dominano, la colonna sonora gasa,
L’eroina femminile, l’imperatrice Furiosa (Charlize Theron, che, con capelli rasati, fronte nera e una protesi al posto del braccio, è bella più che mai), è la vera protagonista, il vero cuore morale, il motore della vicenda, il personaggio che subisce l’evoluzione più vistosa. Tutto questo riesce a essere, pur nella semplicità della sua caratterizzazione da ribelle che cerca redenzione.
E Mad Max?
Mad Max (qui Tom Hardy), se si può dire che Furiosa è il motore e il cervello, è dal canto suo l’esperienza della strada e la vendetta.
Subito in sintonia con l’imperatrice, le fa da supporto sia nelle intenzioni che nella pratica, avvicinandosi al ruolo del vecchio eroe che
Così diventa egli stesso la cornice di un’altra storia, a cui dà qualche tocco qui e lì perché vada nel verso giusto. Insomma, personalità consolidata, può permettersi di lasciare spazio non solo a un altro personaggio primario, ma anche a un cast iconico (Hugh Keays-Byrne e Nicholas Hoult, tanto per cominciare), a una trama che ha poco a che vedere con il suo passato ma che, fermandosi appena un attimo prima di accecare assordare e rintronare, come poco altro diverte.
Chiara Orefice