Il dialetto napoletano come identità culturale

«Il dialetto è come i nostri sogni, qualcosa di remoto e di rivelatore; il dialetto è la testimonianza più viva della nostra storia, è l’espressione della fantasia». Così Federico Fellini aveva definito i dialetti italiani, mostrando nelle sue opere cinematografiche un particolare affetto per il lessico materno. Il dialetto ha dentro di sé una forte volontà di ricordare: il luogo d’origine, le tradizioni identificano il nostro essere in qualsiasi parte del mondo decidiamo di vivere.

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Veduta del Golfo di Napoli

«Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo e che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Il sentimento di appartenenza che animava Pavese durante la stesura del suo ultimo romanzo, La luna e i falò, non è solo puro romanticismo o orgoglio, ma la convinzione che sono le origini a plasmare ciò che diventeremo. Ecco perché il dialetto: la testimonianza più viva che ci identifica come parte di un tutto, un tratto genetico tramandato di padre in figlio.

Il dialetto è una lingua viva, è la nostra storia

Una prova della vitalità dei dialetti proviene dall’abbondante lessicografia dialettale, una cospicua produzione di vocabolari, molti dei quali utili per approcciarsi alle opere. In questo vasto panorama un grande merito viene attribuito a Francesco D’Ascoli con il suo Nuovo Vocabolario Dialettale Napoletano, edito da Gallina nel 1993. Con il suo dizionario storico, D’Ascoli riesce a mettere in evidenza i contatti esistenti tra il dialetto e la lingua nazionale, valorizzando il dialetto napoletano e attribuendogli un’impronta letteraria, col fine di avvicinare un pubblico sempre più vasto ai testi dialettali e di incrementare gli studi del napoletano.

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Il Vocabolario di D’Ascoli

La Campania è una regione che presenta un vasto panorama di dialetti ancora oggi parlati, non solo dagli anziani del luogo, ma anche dai giovani. È vero, infatti, che i dialetti conservano in sé frammenti della tradizione, ma accolgono anche neologismi e usi giovanili, essendo utilizzati, nella maggior parte dei casi, in contesti quotidiani. Inoltre, non va sottovalutato l’impiego di alcuni dialetti in testi letterari, spesso testimonianze della loro evoluzione.

«Il termine dialetto è utilizzato per designare una varietà linguistica non standardizzata, tendenzialmente ristretta all’uso orale entro una comunità locale ed esclusa dagli impieghi formali ed istituzionali […]».

In generale, il vocabolo presenta diverse accezioni. Nella Grecia antica, sotto la denominazione di διάλεκτος (da διαλέγομαι «parlare, conversare») venivano collocate le principali varietà del greco, prima dell’affermazione del tipo attico come lingua comune, impiegate nei diversi generi letterari.  Nel Cinquecento il vocabolo assunse un valore dispregiativo, in quanto identificava le parlate subalterne che, prima dell’affermarsi del fiorentino, erano definite volgari. Questo concetto negativo del termine sopravvive ancora oggi nella concezione popolare, considerando i dialetti delle «forme alterate e corrotte della lingua nazionale». Con l’estensione dell’italiano standard su base toscana a tutte le fasce sociali, non solo per usi alti, ma anche ai fini quotidiani, è risultato automatico l’impiego del termine dialetto per designare tutte le altre parlate.

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I dialetti campani secondo la carta dei dialetti d’Italia del Pellegrini

Il dialetto non rappresenta unicamente un oggetto linguistico da analizzare, ma determina la nostra storia: chi siamo, qual è l’ambiente che ci circonda, in quali circostanze viviamo. Croce definì il dialetto «come molta parte dell’anima nostra», un segno di riconoscimento che ci identifica e, allo stesso tempo, ci fa sentire membri di un’unica, grande famiglia. In linguistica, il dialetto è considerato una varietà bassa subordinata alla lingua (una varietà alta dotata di prestigio), perché non possiede una propria letteratura, né è riconosciuta dagli individui come lingua propria o è utilizzato nella comunicazione ufficiale. Tuttavia, esso è assunto quasi come simbolo di appartenenza ad una determinata comunità o regione, acquisendo su scala molto ridotta una propria «ufficialità».

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Tale «universalità simbolica», che da un lato si cerca di attribuire ai dialetti con il tentativo di conservarne la vitalità, dall’altro potrebbe mettere in luce la negatività di questo tentativo. Italo Calvino, in un’intervista del 1976 sull’uso dei dialetti nella letteratura, sostiene che la vitalità del dialetto sta nel suo mantenersi «particolare»: «una vitalità espressiva, cioè il senso della particolarità e della precisione che viene a mancare quando il dialetto diventa generico […]». Il dialetto come identità funge da tratto distintivo solo se è circoscritto, differenziando gli abitanti di un luogo e di un altro. Gli usi dialettali, secondo lo scrittore, potevano essere riconosciuti solo da chi era vissuto a contatto con il dialetto. Questa osservazione sembra contrapporsi al concetto di vitalità connesso ai dialetti.

Se dovessimo considerare un «dialetto vivo», secondo i termini che abbiamo fin ora definito, si potrebbe pensare, ad esempio, al napoletano, dotato di una grammatica e di una notevole tradizione letteraria alle spalle. Inoltre, il napoletano è tuttora impiegato dalla popolazione locale (anche giovanile) ed è riconosciuto a livelli internazionali, attraverso strumenti «popolari» di diffusione, come la canzone, il teatro e il cinema, a cui sono annesse figure di un passato tutt’oggi vivente, quali De Filippo, Scarpetta, Totò. Alla Città del Sole viene attribuito il merito di aver «napoletanizzato» l’intero sud italiano, non solo dal punto di vista culturale, ma anche di diffusione lessicale.

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Totò e Peppino a Milano

Salvaguardare il nostro dialetto

Nella considerazione sulla vitalità dei dialetti, non bisogna, però, sottovalutare quel processo di «standardizzazione», quel conformismo, come sottolinea Calvino, che ha stabilito un’uguaglianza sociale e, perché no, linguistica tra gli individui. E a quale fenomeno, se non al progresso, ne attribuiamo la colpa? Le nuove forme di comunicazione, in prevalenza usate dalla popolazione giovanile, hanno generato un mondo in cui il particolare è sostituito dall’universale, tutti usano un medesimo codice linguistico (ad esempio, per quanto concerne l’universo di internet), introducendo nei nostri dialetti terminologie prima sconosciute e sostituendo quelle cadute in disuso; basti pensare ai termini legati a quei mestieri che oggi sono andati scomparendo.

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E nonostante la battaglia impari tra presente e passato, tra progresso e tradizioni, il dialetto caratterizza i suoi parlanti come una bandiera, un simbolo antico, ma irrimediabilmente attuale.

Giovannina Molaro

Bibliografia:

De Blasi, N., Profilo linguistico della Campania, 2006

Fanciullo, F. – Del Puente, P., Per una Campania dialettale, Dialetti e non solo, 2004

Loporcaro, M., Dialetto e lingua, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Laterza, 2009

Calvino, I., Eremita a Parigi – Pagine autobiografiche, Milano, Oscar Mondadori, 2005