Rock anni '60, '70, '80

La penna di Bob Dylan: poesia in musica

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Bob Dylan, cantautore imponente ed indispensabile, viene esaminato dal punto di vista letterario. Quali sono gli elementi che lo contraddistinguono?

La controcultura statunitense degli anni Cinquanta e Sessanta, in risposta ad una società post-bellica che fece della tensione suo feticcio, produsse di per sé fenomeni in vulcanica ebollizione, che radicalmente influenzarono l’opinione giovanile. Qualcosa nella storia della letteratura cambiò nel giorno in cui Urlo, allucinato ed anticonformistico poema di Allen Ginsberg, venne recitato per intero alla Six Gallery di San Francisco; eppure, tali spinte di significativa potenza non risiedevano unicamente nella carta.

La lezione di Woody Guthrie, sulla cui chitarra campeggiava la scritta «Questa macchina uccide i fascisti», non rimase difatti inascoltata. L’ambiente del Greenwich Village di New York accoglieva svariati cantautori che della musica folk sottolinearono il carattere di critica sociopolitica; Bob Dylan (nome d’arte per Robert Allen Zimmerman), tra essi il più celebre, vide nel folk una profondità che ben s’adattava a parti testuali di una certa validità letteraria. Può quindi il menestrello del Minnesota affiancare nei manuali i grandi autori anglosassoni, come pure le sue candidature al Nobel parrebbero dimostrare?

Woody Guthrie

Bob Dylan il “predicatore”

The Freewheelin’ Bob Dylan

Nei suoi primi tre LP, pubblicati dal ’62 al ’64, Dylan godeva appieno della dicotomia vincente che fondava il folk americano, spaziante tra canzoni d’amore, o comunque ricollegabili ad imprese individuali, e canzoni dal fervente impegno civile, spesso scheletriche nella struttura armonica, biascicate freneticamente (talking blues).

Ma Dylan si dimostrò un innovatore del genere anche nella fase in cui ne rispettò i canoni. Tralasciando l’inno antimilitarista Blowin’ in the Wind, perla oramai appartenente non senza motivo alla cultura di massa, da quello stesso album (The Freewheelin’ Bob Dylan, 1963) che consacrò il folksinger, allora ventiduenne, al mondo dello show business è un altro lungo brano, A Hard Rain’s Gonna a-Fall, a catturare l’attenzione.

Quei sette minuti sono difatti sufficienti, o addirittura concepiti, per rendere la canzone vero e proprio contenitore di gran parte degli elementi della poetica dylaniana: e se l’ispirazione iniziale è sfacciatamente britannica (riprende difatti la ballata medievale Lord Randal), i contenuti sono di pura attualità, e si evolvono mediante visioni improvvise, debitrici della poesia francese tardo-ottocentesca.

La «dura pioggia» destinata a cadere, più che conseguenza del fallout nucleare come alcune interpretazioni suggeriscono, acquisisce più generalmente valore di profezia in un momento di profonda crisi anzitutto etica.

E che cosa hai visto, figlio mio dagli occhi azzurri?
Che cosa hai visto, mio caro ragazzo?
Ho visto un neonato circondato dai lupi;
ho visto un’autostrada di diamanti, ma non c’era nessuno;
ho visto un ramo nero che stillava sangue;
ho visto una stanza piena d’uomini coi loro martelli sanguinanti;
ho visto una scala bianca tutta coperta d’acqua;
ho visto diecimila bocche che parlavano con le lingue spezzate;
ho visto pistole e lame aguzze in mano a dei bambini;
e una dura, una dura, una dura, una dura,
una dura pioggia cadrà.

Oltre l’antimilitarismo

Il giovane trovatore avrebbe di lì a poco compreso, tuttavia, che quella reputazione di veggente manicheo stava lentamente divenendo corrosiva e limitante per il fluire della sua creatività. Il cambio di rotta fu solo l’inizio, d’altronde, di un percorso che avrebbe portato Dylan, con non poche controversie, ad allontanarsi dal rarefatto ambiente newyorkese per giungere ai vertici del panorama musicale internazionale.

My Back Pages (da Another Side of Bob Dylan, 1964), confessione autobiografica di rara bellezza, cristallizza la presa di coscienza dell’errore di giudicare il mondo secondo due categorie distinte e contrastanti: Dylan, superato l’annullamento della sua complessa interiorità nella figura di sé che egli stesso aveva creato, ringiovanisce spiritualmente.

In atteggiamento da soldato, rivolgevo la mia mano
ai cani bastardi che insegnano;
non temevo che sarei diventato io il mio nemico
nel momento stesso in cui ero io a predicare.
La mia esistenza era guidata da imbarcazioni in pieno caos,
con ammutinati da poppa a prua.
Ah, ma ero molto più vecchio a quei tempi,
sono molto più giovane ora.

Bringing It All Back Home

L’anarchia che albergava nell’animo del cantautore trovò riscontro nel rock, allora in piena diffusione. Ma, pur avendo abbandonato l’impegno politico, Dylan non abbracciò il rock anche dal punto di vista testuale; anzi, continuando a coltivare interesse nei confronti della letteratura, fu senz’altro egli stesso tra i primi ad offrire una dignità non soltanto sonora ad un genere in continua evoluzione. Mr. Tambourine Man (da Bringing It All Back Home, 1965) è tra i testi più suggestivi e criptici dell’intera produzione di Dylan, che guarda ancora a Rimbaud, tra le sue letture predilette, con gli occhi di un poeta beat.

Allora fammi sparire tra gli anelli di fumo della mia mente
nel profondo delle nebbiose rovine del tempo, ben oltre le foglie gelate,
oltre gli alberi contorti e coperti di ghiaccio, esposti al vento sulla riva
a grande distanza dal corso attorcigliato del folle dolore.
Sì, danzare sotto un cielo di diamante con una mano ondeggiante nell’aria
stagliata in controluce sul mare, in un cerchio di sabbia come al circo
con tutti i nostri ricordi e il nostro destino persi sotto le onde:
fammi dimenticare l’oggi finché non arriva il domani.

Ehi! Mr. Tambourine Man, suona una canzone per me:
non ho sonno e non vado da nessuna parte.
Ehi! Mr. Tambourine Man, suona una canzone per me:
nel mattino tintinnante ti verrò dietro.

Il rigore poetico di Dylan avrebbe gravato su molteplici artisti a lui contemporanei, o distanti di generazioni; la lettura attenta dei suoi testi ne esplica genuinamente il motivo.

Pierluigi Patavini

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Pierluigi Patavini

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