Vajassa: serva, sgualdrina o popolana?

Che cosa significa vajassa?

Nel Nuovo vocabolario dialettale napoletano di Francesco D’Ascoli, si dà questa definizione del lemma vajassa: “serva, fantesca”, che è il significato originario del vocabolo, e “becera, ciana, donna volgare“, che è l’accezione con la quale il termine si usa ancora oggi.

Vajassa: etimo incerto?

vajassa
Loredana Simioli nel personaggio della vajassa Mariarca

Sull’origine del termine vajassa non c’è, però, accordo tra i linguisti.

Ferdinando Galiani, nel suo settecentesco vocabolario, scriveva: “Vajassa, serva di casa. Viene dall’arabo, nella qual lingua bagasch significava lo stesso”.

Nel vocabolario ottocentesco di Raffaele D’Ambra, per il lemma “vajassa” si fa riferimento etimologicamente alla voce araba baassa; tuttavia tale vocabolo, che designa “la persona che si getta ai piedi di qualcuno in segno di sottomissione”, pare mostrare nessun rapporto semantico con vajassa.

In tempi recenti, Francesco D’Ascoli ha messo in relazione il termine vajassa con bagascia, che significa “sgualdrina”, facendolo risalire a un relitto mediterraneo sulla base del caratteristico suffisso -asso.

Amedeo Messina, invece, rifiuta l’idea che si possa accomunare etimologicamente vajassa con bagascia: se a Napoli, prima ancora di diventare una popolana chiassosa, la vajassa è stata una serva, allora appare impossibile ritenere che ella sia stata anche una sgualdrina, in quanto è inverosimile che in casa si facesse entrare, come nulla fosse, una prestatrice d’opera addetta sia ai servizi domestici che a quelli sessuali.

Lo stesso Messina propone una diversa ricostruzione, non del tutto nuova ma da lui meglio esplicitata. Oltre alla baassa, nel Vocabolario napolitano-toscano, D’Ambra avanza anche l’ipotesi secondo cui vajassa avrebbe origine dal termine latino bàiula  con la terminazione greca -assa, cioè “portatrice di qualcosa di pesante sulla schiena o in braccio”.

Dunque, secondo Messina, quando poi la cammarera prese sulle proprie spalle il peso dei lavori domestici e quando la nutriccia raccolse nelle proprie braccia i piccoli da allevare, allora alla vajassa, privata dei fardelli, non restò che urlare e sbraitare.

Fu così che Cortese raccolse le proteste di queste donne strillazzere nella Vajasseide.

La Vajasseide ovvero “l’epopea delle vajasse”

Io canto comme belle e vertolose

so’ le baiasse de chesta cetate            

e quanto iocarelle e vroccolose, 

masseme quanno stanno ‘nnammorate.

"La Vaiasseide" di G. C. Cortese
“La Vaiasseide” di G. C. Cortese

È in questo modo che si apre la Vajasseide, poemetto eroicomico in napoletano. Scritto nei primi anni del Seicento da Giulio Cesare Cortese, vi si narrano le vicende amorose di tre giovani serve, Renza, Preziosa e Carmosina, le quali sono state private dai loro padroni della possibilità di sposare i loro rispettivi fidanzati. Al di là della trama ricca di spunti di comicità, l’opera ha grande valore soprattutto perché offre una descrizione realistica della chiassosa, vivace, barocca società napoletana degli inizi del XVII secolo.

 

Musica vajassa

La risposta musicale a che cosa sia una vajassa ce la offre il cantautore Vinicio Capossela nel brano Che coss’è l’amor (album Camera a sud del 1994):

vajassa
Vinicio Capossela

Che cos’è l’amor
è la Ramona che entra in campo
e come una vajassa a colpo grosso
te la muove e te la squassa
ha i tacchi alti e il culo basso
la panza nuda e si dimena
scuote la testa da invasata
col consesso
dell’amica sua fidata.

 

E, sempre musicalmente parlando, il termine vajassa è presente nel nome di uno strumento a percussione tipico dell’Italia meridionale, in particolare dell’area napoletana: lo scetavajasse (da sceta “sveglia”, terza persona del verbo scetà, e vajasse).

vajassa
Scetavajasse

Esso consiste di due bastoni di legno, di cui uno liscio, che si regge con la mano sinistra e si appoggia sulla spalla come un violino, e l’altro dentellato, con una serie di piattini metallici sul lato opposto alla dentellatura. Lo sfregamento, a guisa di un archetto, del bastone dentellato su quello liscio genera il suono.

L’uso singolo dello scetavajasse è tipico delle marinaresche, visto che con lo scuotimento dei piattini del bastone dentellato si ottengono suggestive atmosfere che rievocano i flutti del mare; tuttavia, generalmente tale strumento è accompagnato dal putipù (‘a caccavella) e dal triccabballacco.

Secondo Francesco D’Ascoli, il nome scetavajasse deriva dal fatto che il rumore assordante dello strumento è capace di destare finanche le popolane chiassose dei quartieri napoletani.

Il parlar… vajasso

Il termine vajassa compare anche in molti modi di dire e in espressioni idiomatiche napoletani.

L’abate , a tal riguardo, citava questo proverbio: Me faje l’ammico e mme ‘mpriene la vajassa (“Fingi di essermi amico ma poi mi ingravidi la serva”), a proposito del quale egli stesso commentava: “È singolare che i nostri antichi credessero maggior tradimento quello di corromper le loro serve che non le loro donne”.

Nell’espressione essere vajassa a re de Franza (letteralmente “essere serva del re di Francia”) per Francia s’intende un’allusione alla lue o mal francese, cioè la sifilide, la cui diffusione era attribuita dai napoletani alle truppe calate al seguito di Carlo VIII nel 1494-’95;  chiamate in causa sono ovviamente le prostitute, esposte ai pericoli del morbo gallico.

Ancora, con il modo di dire dà ‘nu scetavajasse si indica, in senso traslato, “il dare un manrovescio, un ceffone”; tale uso è nato dall’idea che con uno schiaffo si possa destare una persona dal suo apparente letargo, richiamandolo alla ragione.

Carmine Caruso

Bibliografia

FRANCESCO D’ASCOLI, Nuovo vocabolario dialettale napoletano, Napoli, Gallina, 1993

Sitografia

http://www.ilc.it/vaiassa.htm (AMEDEO MESSINA, Genealogia della vaiassa)

http://www.virtualsorrento.com/it/arti/musica/strumenti_folklore/scetavajasse.htm (VINCENZO SCHISANO, Lo scetavajasse)