Giambattista Vico e la filosofia napoletana del Settecento

Giambattista Vico si è imposto all’attenzione della cultura europea soprattutto grazie alla lettura che ne ha offerto Benedetto Croce nell’opera La filosofia di Giambattista Vico del 1922. La fortunata interpretazione crociana tende però a collocare Vico nell’alveo della filosofia idealistica, presentando il filosofo italiano come un precursore di Hegel e dello storicismo assoluto.
Ma qual è l’ambiente in cui matura la filosofia del pensatore napoletano?

Giambattista Vico e il Settecento napoletano

La vita di Vico (1668-1744) è tormenta dall’alternarsi di fortunati eventi e rovinose cadute. La prima a soli sette anni, quando la sua vivacità gli procura una frattura del cranio, per la quale il medico si pronuncia affermando : ”O morte o idiozia perenne”.
Non seguono né morte, né idiozia, ma la massima espressione della filosofia italiana. Gli studi del giovane Vico sono un lungo percorso di autoperfezionamento, compiuto nei lunghi anni trascorsi nella residenza di Vatolla. Qui, in qualità di precettore della famiglia dei Rocca, ha modo di usufruire della grande biblioteca del castello. Lo studio di Platone, Tacito, Lucrezio accendono in Vico il desiderio di ritornare a Napoli, che nel Settecento è riconosciuta come una delle più grandi capitali della cultura europea.

Animata da uno spirito eclettico, Napoli si presenta a Vico come un laboratorio di sperimentazioni. La città è il centro di confluenza delle più innovatrici tendenze del tempo: dal cartesianesimo al galileismo, dal platonismo all’esoterismo.

Verso una scienza nuova: la filosofia meridionale

La ricostruzione dell’ambiente culturale nel quale matura la filosofia vichiana ha reso possibile superare l’immagine tradizionale di Vico come un pensatore isolato. Nel 1699 il napoletano ottiene la cattedra di Rettorica all’Università Federico II. È l’inizio di un intenso impegno culturale e di una collaborazione con molti intellettuali del tempo. Due sono i cenacoli intellettuali che rappresentano per la filosofia vichiana un punto di riferimento fondamentale: l’Accademia degli Investiganti e l’Accademia del Medinaceli.

Fondata a Napoli intorno al 1650, l’Accademia degli Investiganti è il primo polo di ispirazione antiaristotelica del Meridione italiano. Gli studiosi raccolti attorno all’Accademia, tra i quali Tommaso Cornelio, Francesco D’Andrea, Leonardo di Capua, propugnatori del metodo scientifico moderno, contribuiscono ad introdurre nella cultura napoletana l’approccio sperimentale alla filosofia della natura. L’attenzione posta sul problema dell’esperienza che l’uomo fa del mondo conduce presto gli Investiganti ad aprirsi a riflessioni sul mondo civile, sulla politica, sulla società. Profondamente animati da spirito indagatore ed anticattolico, gli intellettuali meridionali sono ricordati soprattutto per il carattere antidogmatico e per l’esercizio libero della ragione.

Ricordando l’attività dell’Accademia, sospesa per volere del vicerè aragonese, nella sua Istoria del Regno di Napoli Pietro Giannone scrive:

“L’Accademia istituita in Napoli sotto il nome degli Investiganti tolse la servitù infin allora comunemente sofferta di giurare nelle parole del maestro, e rendette più liberi coloro che vi si arrovellavano di filosofare… secondo il dettame della ragione”.

Giambattista Vico
Scala d’ingresso del Palazzo Reale di Napoli

L’eredità culturale degli Investiganti è poi raccolta dall’Accademia Palatina istituita nel 1697 dal viceré duca di Medinaceli. Sede dei lavori degli accademici è la Gran Sala del Palazzo Reale di Napoli, divenuto presto il luogo di incontro di nobili e intellettuali impegnati nello sforzo di laicizzare e modernizzare la filosofia e di restituire lustro e prestigio alla musica e alla poesia.

La scoperta della storia: I principi di Scienza Nuova

Tra gli aggregati dell’Accademia palatina non tarda a comparire il nome di Giambattista Vico. Il filosofo napoletano nella sua Autobiografia riconosce l’influsso decisivo esercitato sulle sue opere dall’Accademia. In particolare, l’attenzione riservata allo studio degli imperi del passato, l’applicazione del metodo ‘galileiano’ allo studio della società e del diritto, ispirano Vico alla composizione di quella che sarà la sua opera maggiore: I principi di Scienza Nuova.

Ma qual è questa scienza nuova di cui il Vico ritiene di aver scoperto i principi?

Ciò che il filosofo eleva a rango di scienza è lo studio della storia degli uomini. Affinché la storia potesse figurare fra le discipline scientifiche, era necessario dotarla di un “metodo” rigoroso e scoprire le leggi eterne ed invariabili che descrivono il corso degli eventi. La straordinarietà del Vico risiede però nella sua grande capacità di non ridurre la storia degli uomini ad un cieco meccanismo. L’azione dell’uomo è sempre un atto di libertà e la storia non è che la storia della libertà umana. I fenomeni umani, le istituzioni, le società, le nazioni sono “nature” più complesse che gli enti naturali. Esiste, tuttavia, secondo Vico, un trama segreta, una storia ideale eterna, che scorre al di sotto della storia dei popoli.

Giambattista Vico
Principi di Scienza Nuova, Dipintura

L’inizio mitico dell’umanità: la sapienza poetica

Se alla filosofia Vico affida il compito di descrivere l’uomo quale deve essere, la filologia è impiegata dal nostro filosofo per lo studio dell’uomo nella concretezza del divenire storico. I fatti degli uomini, i documenti, le lingue, le istituzioni politiche rappresentano l’uomo quale è. È la filosofia ad illuminare i fatti che la filologia accerta, scoprendo quell’ordine segreto verso cui tendono le storie particolari dei popoli del passato. La conoscenza storica è resa così possibile, perché è conoscenza di quel mondo civile che

“è stato certamente fatto dagli uomini, onde se ne possono, PERCHé se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana”.

È questo uno dei principi fondamentali della Scienza Nuova: la conoscenza storica è possibile per l’uomo perché è conoscenza di quel mondo civile che l’uomo stesso crea. La conoscenza della natura resta per l’uomo inaccessibile, perché l’uomo conosce soltanto ciò di cui egli stesso è artefice. Verum ipsum factum, sostiene Vico.

Qual è quell’ordine segreto verso cui tendono tutte le storie particolari dei popoli? Una delle leggi storiche fondamentali (dette da Vico degnità), enunciata nella Scienza Nuova, stabilisce una corrispondenza fra sviluppo dell’individuo e sviluppo della civiltà:

“Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”.

Come l’inizio della vita dell’uomo è segnato dal pianto confuso del bambino, poi seguito dalla immagini della fantasia, infine dal pieno sviluppo della razionalità, così la storia dei popoli. L’inizio della storia umana è descritto da Giambattista Vico come il trionfo degli uomini-bestia, incapaci di comunicare, immersi nella “selva oscura” dell’irrazionalità. Furono un tuono improvviso e un lampo ad ispirare nella primitiva umanità la paura della morte; borbottando, gridando e fremendo i bestioni avvertirono il timore di Dio. Ad accompagnare il primo passo verso la civiltà è stato, dunque, il mito di Giove. Poi nacquero i poemi di Omero, prodotto della spontaneità dell’immaginazione e dalla creazione poetica che, sollecitata da forti passioni, è per l’uomo l’aurora della spirito.

Martina Dell’Annunziata

Bibliografia

G. Vico, Scienza nuova seconda, Laterza, Bari 1953.

B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1922.