The Dressmaker – il diavolo è tornato: il film

Tratto dall’omonimo romanzo di Rosalie Ham, “The Dressmaker – Il diavolo è tornato” (Jocelyn Moorhouse – 2016) mescola tratti provenienti da film più o meno vecchi e mescola anche qualche genere, rubando suggestioni qua e là e usandole con discrezione e un tocco di maestria, accostando atmosfere da circo al paesaggio piatto e scarno del deserto.

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L’ambietazione

Siamo in Australia, e il deserto di laggiù garantisce che il film sarà crudo e disinibito, con un po’ di Far West a strizzare l’occhio da lontano. La cittadina rurale di Dungatar è un piccolo paese composto da qualche casa, dalla scuola, dal campo di gioco e dalla stazione di polizia. Un po’ più in là si scorge la stazione, e in cima alla collina c’è la casa a cui fa ritorno Tilly Dunnage (Kate Winslet).

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Sono passati molti anni da quando è stata cacciata dalla cittadina, da quando sua madre Molly la Pazza (Judy Davis) ha permesso alla polizia di portarla via, per… per qualcosa che non ricorda più di aver commesso.

Molta della trama di “The Dressmaker” ruota attorno al delitto di cui Tilly è accusata, di cui tutti hanno sentito parlare ma che nessuno ha mai visto. È un piccolo paese, e come si sa le voci corrono: all’epoca bastò che un testimone parlasse perché in un baleno la fiamma dell’odio divampasse, perché tutti urlassero e imprecassero contro la bambina omicida. E quasi niente è cambiato da allora.

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Le dinamiche della comunità poco numerosa, ingabbiata dal deserto che la circonda e che la costringe ad avere a che fare solo con se stessa, sempre e comunque, con la propria cattiveria e con i propri segreti, con l’odio sottopelle the dressmakere la follia peculiare di ognuno… questa è la forza principale di “The Dressmaker”: è un quadro della brulicante realtà di Dungatar, una rappresentazione viva di ogni figura che la anima e del malcelato piccolo mondo racchiuso in sguardi di disprezzo, dicerie, sorrisetti.

I personaggi

Kate Winslet veste i panni della protagonista Tilly, tornata a casa per prendersi cura della madre malata. E per vendicarsi. Nei decenni in cui ha abitato all’estero ha fatto esperienza con le più grandi case di moda, sviluppando un’abilità nel cucire che ha del sovrannaturale: i suoi abiti trasformano la persona, esaltando le forme del suo corpo come nient’altro può fare, e rendendola bellissima e sensuale.

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Ma non è un film per signorine nostalgiche de “Il Diavolo veste Prada”. L’abilità sartoriale è solo uno strumento: benché all’inizio Tilly ne voglia fare un mezzo per riavvicinarsi alla città e indagare sul suo passato, si rende conto poi pian piano che sarà la chiave della sua vendetta e del suo successo. In una città in cui l’interno dell’essere umano è marcio, l’abilità di far riemergere il bello esteriore rappresenta un gioco diabolico di lusinga e menzogna.

E l’unico che non avrà bisogno della “magia” di Tilly sarà Teddy McSwiney (un Liam Hemsworth ben più espressivo del fratello), bello di aspetto e bello di cuore.

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La costruzione dei personaggi non è minuziosa, ma vivida. Ognuno è riconoscibile per i suoi tratti più evidenti – di solito è un difetto – e immediatamente individuabile sullo scenario di sabbia e casette. È di certo da segnalare un adorabile Hugo Weaving, forse il personaggio più simpatico di tutti, che coltiva in segreto l’amore bruciante per le stoffe di alta qualità.

Andare a vedere “The Dressmaker”?

Sì. Se i difetti principali sono qualche incongruenza di età (è Kate Winslet a dover essere più giovane o Liam Hempsworth a dover essere più vecchio?), una certa frammentarietà della trama e la sensazione ogni tanto di assistere ad un affastellamento di scene che scattano in avanti senza troppa fluidità, è però tutto pienamente compensato da un ben dosato gusto per il grottesco, dai colori carichi e dalle figure stagliate nettamente sulla scenografia, dall’assoluta naturalezza con cui si fanno morire i personaggi che devono morire, dalla colonna sonora, e dai personaggi femminili che popolano Dungatar – a partire da Molly la Pazza.

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Un po’ di giallo, con relativa soluzione finale piuttosto soddisfacente, un po’ d’amore ridotto al giusto numero di scene, vendetta, morte e vestiti da urlo. Ecco il piacevole “The Dressmaker”.

Chiara Orefice