Salvatore Giuliano: di sicuro c’è solo che è morto

«Di sicuro c’è solo che è morto» così esordisce il giornalista de L’Europeo (Tommaso Besozzi) il 16 luglio 1950; è stato lui ad accorgersi per primo che Salvatore Giuliano non poteva né essere stato ucciso in quel cortile né con le dinamiche che erano state dichiarate.

Questo e tanto altro è stato fedelmente ricostruito nel film ”Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi del 1962 (quindi circa 12 anni dopo l’omicidio). Rosi, in questo film, ha voluto percorrere la traccia della verità giudiziaria, ha conosciuto, è entrato in relazione con persone che davvero avevano partecipato ai fatti (così come farà poi anche con Le mani sulla città, del ’63) e già nel momento in cui ha fatto le prime indagini e ha raccolto le prime informazioni si è reso conto che non avrebbe dovuto seguire uno stile narrativo classico.

Salvatore Giuliano, le scelte stilistiche di Rosi

Salvatore Giuliano in tutto il film non si vede mai in volto (almeno non da vivo), è sempre di spalle. Ciò non fa altro che avvalorare la tesi secondo cui Rosi, con questo film, non abbia voluto parlare essenzialmente del bandito ma delle sue azioni e delle ripercussioni che hanno avuto sulla popolazione di Montelepre (lo stesso titolo che viene apposto sul ciak durante le riprese è ”Sicilia 1943-1960”).

Rosi, infatti, dirà poi di aver voluto fare un film sulla Sicilia, sul paesaggio siciliano e non un film in cui la materia prima sarebbe stata l’avventura.

«[…]la mia non era una storia drammatica di un bandito, ma di una collettività, dei siciliani, dei contadini di quella terra»[1]

Ed è per questo che non sceglie una soluzione narrativa di genere ma una soluzione storica; è come se fosse un documentario, è come se egli avesse solo posizionato le telecamere e si fosse nascosto per riprendere il tutto senza interferire con le vicende.

Molte delle inquadrature di questo film sono delle (false) soggettive (lo dimostra anche il sonoro, del quale  manipola il volume): di stacco in stacco Rosi ci fa vedere ciò che ognuno dei presenti vede.

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Attraverso questa particolare struttura filmica noi veniamo a conoscenza dei punti di vista e li raccogliamo come se fossimo in prima persona impegnati nell’inchiesta. Effettivamente non si fa altro che sfruttare una delle più grandi capacità che ha il cinema: darci la possibilità di avere quei punti di vista che altrimenti in una vita non potremmo mai ottenere.

Ed è attraverso questa raccolta progressiva di informazioni che noi, da spettatori, riusciamo a intuire la verità (contrariamente a quanto accadrà in Le mani sulla città, in cui la verità viene dispiegata già durante la prima scena e il nostro compito sarà quello di accompagnare il consigliere De Vita nel tentativo di farla scoprire).

Rosi, nell’intervista che ha rilasciato a Giuseppe Tornatore, tiene a sottolineare il fatto che non ha usato dei flashback, è un film storico e non cronistico, esso è composto da episodi e ognuno è «un piccolo film» dalle quali si può estrapolare il significato solo in funzione ai loro intrecci. Si ha quasi la sensazione, guardandolo, di stare a sfogliare la cartella con gli atti delle indagini e, questo, ci pone in una situazione necessariamente attiva.

Lo spettatore è indotto a pensare, a ragionare.

Inoltre, il fatto che ci sia una sorta di struttura circolare (l’inquadratura iniziale con il ritrovamento del cadavere di Giuliano somiglia per illuminazione e posizione del protagonista a quella finale, nella quale vi è inquadrato il cadavere del mafioso che aveva fatto arrestare i banditi) ci porta alla conclusione che la verità dei fatti sarà difficile da ottenere e che la storia di Salvatore Giuliano è ricca di misteri ancora da svelare.

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Le difficoltà dello girare un film come Salvatore Giuliano sono molteplici: prima fra tutte (a parte le prevedibili problematiche che ha avuto con la famiglia di Giuliano) è la riservatezza della popolazione di Montelepre; si lasceranno convincere e sedurre dall’idea di questo film solo quando Rosi prometterà di avere la volontà e le capacità di raccontare le loro sofferenze, le loro difficoltà.

«Lei avrà il coraggio di raccontare quello che abbiamo passato?[…] Lei riuscirà a far vedere le cause del nostro dolore?»[2]

Proprio a causa di questa caratteristica caratteriale tipica del popolo siciliano, Rosi ha avuto difficoltà anche nelle riprese dell’episodio della rivolta delle donne: in un primo momento queste si sono rifiutate di partecipare e Rosi ha dovuto chiamare delle ragazze da Palermo, poi invece hanno cambiato idea spinte da un sentimento di orgoglio e hanno dato vita (tutte insieme) ad una scena dalla bellezza mozzafiato.

Interessante è la scelta di non far mai vedere i dettagli (anche nella strage di Portella della Ginestra), si mantengono rigorosamente le distanze.

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«Ecco, tenendo a distanza, è così che volevo raccontare. Alimentando la curiosità dello spettatore di voler entrare nel contesto raccontato e capire meglio»[3]

Senza poi dimenticare il fatto che questa scelta particolare fa in modo che il film abbia la possibilità di essere eternamente attuale e non lo si imputi a una determinata vicenda, con determinati personaggi.

Salvatore Giuliano è sicuramente il film che non solo ha determinato una svolta nel lavoro di Rosi, ma è stato un punto di svolta anche nella storia del cinema:

«Quel film fece capire a tutti che esisteva un altro modo di raccontare»[4].

Cira Pinto

1Io lo chiamo cinematografo, pag. 156.

2Ibidem, pag. 147.

3Ibidem, pag. 166.

4Ibidem, pag. 139.