La Ginestra e il Dialogo di Timandro ed Eleandro di Leopardi

Vediamo la verità per Giacomo Leopardi comparando due opere in apparenza contraddittorie il “Dialogo di “Timandro ed Eleandro” e” La Ginestra”.

Nell’operetta morale Dialogo di Timandro ed Eleandro, composta nel Giugno 1824, Giacomo Leopardi esponendo una fase della sua riflessione sulla verità, nel mezzo del discorso col critico Timandro, giunge a far pronunciare dallo scrittore Eleandro la condanna più radicale della filosofia in quanto conoscenza della verità.

“Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi…Dunque s’ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero.”

Sarà invece necessario affermare che le verità della filosofia:

“debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo…l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare. Dal che s’inferisce che la filosofia, primieramente, è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è dannosissima, perché quella ultima conclusione [ossia che è dannosissima] non vi si impara se non alle proprie spese, e imparata che sia, non si può mettere in opera, non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute… In somma la filosofia, sperando e promettendo a principio di medicare i nostri mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare a se stessa.”

Eleandro nel dialogo, avendo pietà tenta di evitare che gli uomini conoscano la verità. Propriamente, ha pietà per la gente comune; e Leopardi condanna la Rivoluzione Francese in quanto volontà che la Dea ragione – quindi, in sostanza, la filosofia – divenga la Dea delle masse.  Ma il Dialogo esprime solo una fase della riflessione leopardiana sulla verità.

La ginestra: canto di verità

dialogo la ginestraLa ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi, scritta nella primavera del 1836 a Torre del Greco nella villa Ferrigni e pubblicata postuma nell’edizione dei Canti nel 1845. Il vasto poemetto conclude (insieme a Il tramonto della luna) il suo complesso e prolifico percorso poetico, tanto da essere considerato il testamento spirituale di Leopardi. Nel canto compare la “nobil natura”. E in posizione centrale, vv. 111-117, giacché la ginestra è la stessa nobile natura.

«Nobil natura è quella

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale; […]»

Compare qui una natura che “s’ardisce” mentre nel Dialogo invece è pietà, non ardimento, nascondere la verità all’uomo. All’opposto, la nobile natura ha l’ardimento di sollevare gli occhi sul fato comune, guardando la verità “nulla al ver detraendo”, senza nascondere alcunché di ciò che di essa fa più male. E guardare la verità è compito della filosofia che è nobile e non “inutile” e “dannosissima” come afferma Eleandro nel Dialogo.

Egli, d’altra parte, parla della filosofia considerandola nel suo isolamento, nel suo non essere accompagnata da nient’altro. Leopardi sa bene che “nobilis” è riconducibile a “nosco” e che quindi indica colui al quale spetta di essere noto, riconosciuto, visibile. Dunque, se la pietà di Eleandro gli fa dire che per la gente è estremamente dannoso conoscere la verità, la nobile natura pensa invece che la conoscenza della verità da parte dei popoli possa ricostruire in essi quell’originario atteggiamento di solidarietà che consente loro di difendersi per qualche tempo dall’ostilità della “natura matrigna”.

dialogo
“Nuda veritas”, G. Klimt

Leopardi sembra contraddirsi solo in apparenza, in realtà il suo pensiero resta straordinariamente rigoroso. Per primo, il poeta marchigiano, considera l’atteggiamento che nell’Infinito ha una delle sue più alte espressioni, l’atteggiamento dell’anima che si rifugia nell’illusione (l’illusione che l’uomo possa salvarsi dal nulla), vi si chiude, e non potendo nemmeno sapere alcunché del suo essere illusione e di questo suo rifugiarsi, vive e sente come realtà l’infinito e l’eterno.

L’illusione in cui l’anima si chiude è la poesia, il canto; e tuttavia, considerando questo atteggiamento, Leopardi sta al di sopra di esso: è il filosofare che comprende il senso del poetare e del canto. Poi il poeta recanatese considera l’atteggiamento opposto nell’operetta morale Dialogo di Timandro e di Eleandro, dove si considera il puro filosofare (si considera il considerare), cioè la filosofia chiusa in sé e separata dalla poesia, dal canto.

Infine, Leopardi considera l’unità dei due atteggiamenti cui nelle prime due considerazioni ha guardato separando l’uno dall’altro. La ginestra o Il fiore del deserto è uno dei culmini di questo guardare a tale unità. Ora andiamo a capire perché e in che senso l’unità tra canto e conoscenza della verità non sia un’inguaribile contraddizione.

Nella poesia di questa unità c’è la poesia che contiene tale unità, e che è lo splendore del canto La ginestra, e c’è la poesia cantata. La poesia cantata è appunto la ginestra, il fiore del deserto.

«Qui su l’arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null’altro allegra arbor nè fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti.[…] »

 (vv. 1-7)

“Qui”, prima è la prima parola del canto. Lì si trova la ginestra. E lì si trova il cantore:                 

«Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; […]»                                                                                                                                 

 (vv. 158-161)

 

In questo stare di “notte” del cantore si rispecchia la rovina che avvolge il fiore:

« […] Or tutto intorno

Una ruina involve,

Dove tu siedi, o fior gentile […]»

(vv. 32-34)

Il poeta vede se stesso nella ginestra. Anche perché egli vede se stesso nella nobile natura, la quale “tutti abbraccia / con vero amor” porgendo aiuto (vv. 132-135), così come, dice Leopardi rivolgendosi al fiore gentile,

« […] e quasi

i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola. […]»

(vv. 34-37)

Il deserto è l’uomo. L’empia natura, di cui il Vesuvio “sterminatore” è l’icona, lo ha reso un arido deserto. La ginestra svolge la funzione consolatrice col suo profumo. Il profumo è la poesia. Il componimento La ginestra canta la poesia, una poesia cantata dalla nobile natura e quindi non detrae nulla alla verità: poesia che sta unita alla verità. Questa unità è proprio la nobile natura.

Una vivente unità che Leopardi chiama “genio”. La ginestra è un’opera del genio. Ora, la presenza della ragione nell’uomo introduce in lui una contraddizione: desidera la felicità, l’uomo vuole illudersi, ma la ragione gli mostra la verità: la felicità è impossibile; tuttavia è inevitabile che nell’opera del genio la visione della verità sia unita all’illusione: quell’illusione che è la potenza con cui l’opera canta la verità.

Maurizio Marchese

Bibliografia:

Emanuele Severino, In viaggio con Leopardi-La partita sul destino dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2015

Guido Baldi, Sivia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Giacomo Leopardi, in La letteratura volume 4, Milano, Paravia, 2007