Si trattava di un film cupo e denso che avrebbe potuto rendere ottimista chi, sul cinema italiano, ottimista non era, ma che non aveva raggiunto le sale con il clamore adatto a farsi notare. Ci hanno pensato i David di Donatello a rendergli giustizia, e a far notare a tutti che il lavoro di Francesco Munzi vale la pena d’essere guardato.
I figli dell’Aspromonte
Ma partiamo da Gioacchino Criaco, che dice di aver scritto di getto il suo romanzo, pubblicandolo subito dopo, nel 2008. È da lì che Francesco Munzi è partito, facendosi condurre ad Africo proprio dall’autore e vincendo il timore di ricevere, da una terra per lui estranea, un rifiuto o addirittura un’aperta ostilità.
Criaco aveva scritto di tre ragazzi cresciuti insieme e per questo considerati fratelli, denominati “figli dei boschi” e riconosciuti dal buonsenso del lettore come “i cattivi”. Eppure mai quei tre riescono a farsi identificare come i mostri della fiaba. Calabresi cresciuti da calabresi in simbiosi con la propria terra – che fa da terzo genitore – tanto da diventare le appendici di un’anima vecchissima e fiera che abita l’Aspromonte, che lo rende distinto dal resto dell’Italia, che se lo stringe tra le braccia con diffidenza e in dignitoso silenzio.
Le anime nere che abitavano a Milano
Se sulle pagine quella terra sembrava immersa in un’aura di leggenda, una volta a
E nonostante quella terra ai limiti dell’Italia rimanga perno di tutto, per una buona metà “Anime nere” si apre sulla Milano da bere, negli esultanti anni Ottanta che si sarebbero srotolati freneticamente verso i Novanta, rivelando cosa nascondeva tutto quell’entusiasmo… L’aria gaudente si stava facendo pesante. Mancava poco a Tangentopoli.
Quando passano a Munzi, poi, i tre si
Una fotografia della Milano da bere
Munzi, pur allontanandosi molto dal romanzo nell’effettiva produzione di una pellicola, lascia intatta la volontà di Criaco di raccontare in modo lucido, clinico e limpido, con il discernimento del ricordo onesto. C’è un’amarezza penetrante che avvelena chi racconta, certo, ma è poco chiassosa, da percepire come una nebbia aleggiante, domata a schiena dritta e testa alta proprio da colui che la prova, perché ritiene più importante riportare i fatti e lasciare da parte la retorica e il moralismo.
È una verità cruda, senza fronzoli né giustificazioni, senza pretesa di spiegarne saccentemente le origini e le motivazioni ma che, anzi, dichiara francamente che chi non fa già parte di questo universo, tagliente e vivido ai limiti della ferinità, può solo sfiorarne gli angoli e tentare di distinguerne l’eco dalla soglia, ma mai entrerà. Né, d’altra parte, chi c’è già dentro potrà sperare di uscirne.
In “Anime nere” la magnifica città dell’opulenza ostentata e il mondo dalle leggi ataviche e coriacee si incontrano, subito fertilizzandosi a vicenda per proliferare in un nugolo di virus destinati a far morire dall’interno la Giustizia e lo Stato.
E tutto questo è di una dolorosa maestosità, triste e splendente, quasi insospettabile per uno dei capitoli più squallidi della storia italiana.
Chiara Orefice