Politica e istituzioni in una colonia romana

Assai di frequente capita di familiarizzare col termine di colonia romana. Durante i viaggi, quando si visitano scavi archeologici come quello di Pompei. Oppure tra i banchi di scuola studiando l’imperialismo romano. O ancora al cinema, quando l’azione di un film sull’antica Roma si svolge lontano dalla capitale.

Ma come funzionavano davvero queste realtà? Che grado di autonomia c’era da aspettarsi? E chi gestiva il potere a livello locale?

In questo articolo si vuole offrire una panoramica sul funzionamento delle realtà che andavano sotto il nome di colonie romane. Si osserveranno i diversi livelli di gestione della cosa pubblica e le prerogative delle magistrature al comando.

Per una definizione di colonia romana

Ma esattamente cosa intendevano i Romani per colonia? Noi infatti siamo abituati a considerare il termine in esclusiva accezione territoriale. Lo utilizziamo quando vogliamo far riferimento a possedimenti di uno stato, normalmente europeo, in altre parti del mondo.

In latino con colonia si voleva intendere una comunità cittadina fondata ufficialmente dallo Stato (comprensiva del suo territorio circostante). Che fosse distante pochi chilometri dalla capitale o addirittura in un altro continente poco importava. Certo entrambe queste accezioni sottintendono un certo grado di dipendenza, e sono legate all’idea di conquista.

In origine le colonie romane potevano essere di vari tipi e non necessariamente autonome dal punto di vista amministrativo. A partire dalla fine delle Guerre sociali (88 a.C.) però queste differenze, così come quelle tra colonie e municipi, vennero via via assottigliandosi fin quasi a scomparire, quantomeno in territorio italico. I Socii avevano vinto, cittadinanza e assetti politici modellati su quelli della capitale vennero estesi a tutta la penisola.

Il quadro costituzionale delle colonie romane

Alla base dell’ordinamento istituzionale di una società assai attenta agli aspetti legislativi come quella romana, esisteva quello che chiameremmo oggi uno “statuto” (in latino semplicemente lex).

Questo era il documento fondante della colonia romana, tracciava privilegi e obblighi di chiunque si fosse trovato a ricoprire cariche pubbliche, e molto altro. Probabilmente veniva inciso su tavole di bronzo e affisso nei templi o nei luoghi pubblici più importanti della città.

Le leges solitamente erano assai precise nella disamina delle regole vigenti, a prova di cavillo. Un estratto da uno statuto rinvenuto in Spagna a titolo esemplificativo:

Tutti coloro che saranno duoviri, ad eccezione di coloro che saranno in carica di prima nomina all’entrata in vigore di questo statuto, durante il loro periodo di servizio dovranno organizzare una parata o uno spettacolo drammatico in onore di Giove, Giunone, Minerva, degli altri dèi o dee, per la durata di quattro giorni, per la maggior parte del giorno, e più a lungo possibile, secondo le decisioni del consiglio, e ciascuno di essi dovrà spendere di tasca propria per lo spettacolo e la parata non meno di 2000 sesterzi, ed è conforme alla legge che ogni duumvir prelevi dall’erario e spenda fino a 2000 sesterzi in denaro pubblico, ed è conforme alla legge che lo faccia senza risponderne personalmente.

Come si può vedere, traspare un’attenzione quasi maniacale per ogni singolo dettaglio. Le informazioni contenute potevano spaziare da norme di comportamento a regolamentazioni di carattere logistico (orari dei mercati) o giuridico (quali casi erano di pertinenza dei magistrati locali, quali andavano discussi a Roma). Ogni aspetto della vita nella colonia romana era rigidamente normato.

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Particolare di una delle tavole bronzee di Eraclea in cui si fa riferimento all’assetto politico della città omonima (Museo Archeologico di Napoli).

Una premessa sui confini cronologici

La struttura amministrativa che figurava nelle colonie romane era bene o male uniforme in ogni angolo dell’impero, a partire dalla metà del I secolo a.C. Lungi dal creare un’immagine di perfetta organizzazione statale però (che magari sarebbe facile contrapporre alla miriade di singolarità attuali), va premesso che di eccezioni ve ne erano.

La lacunosità dei ritrovamenti degli statuti ha in qualche modo indotto gli studiosi a cercare conferme di un preciso ordinamento politico valido per ogni colonia romana nota. Di seguito dunque verrà illustrato a grandi linee un modello variamente applicabile ai singoli casi che, in mancanza d’altro, è cautamente ritenuto universale.

I confini cronologici della trattazione pertanto avranno come estremo inferiore gli anni in cui venne estesa la cittadinanza romana a tutta la penisola italica (80 a.C. circa). All’opposto converrà fermarsi al periodo della dinastia degli Antonini (II sec. d.C.), alle soglie di una delle più gravi crisi della storia di Roma.

Chi era al comando in una colonia romana?

La nostra colonia romana era retta da un sistema misto dichiaratamente ispirato al modello di Roma. Al vertice della piramide troviamo la somma magistratura collegiale dei duoviri iure dicundo (duoviri con potere giudiziale).

Questa coppia di governatori richiama esplicitamente il binomio del consolato romano, e ne replica limitatamente i poteri. La carica era a scadenza annuale e veniva regolarmente rinnovata tramite elezioni (l’assemblea elettorale era detta comitium).

Come il loro titolo lascia intuire, le mansioni dei duoviri erano in prevalenza giudiziarie ed esecutive. Essendo una nomina collegiale (collegium) si seguivano le medesime regole valide per il consolato. Di norma vi era un’alternanza nell’esercizio del potere (probabilmente si governava a giorni alterni), e in caso di conflitto al più anziano (senior) spettava la precedenza.

Era inoltre possibile porre il veto (intercessio) contro le delibere del collega, previo appello formale (appellatio). Non era però possibile sfruttare tale prerogativa più di una volta per lo stesso argomento, e mai in caso di celebrazione dei comizi.

I duoviri giudicavano i casi che, diremmo oggi, appartenevano al foro civile (per il penale si rimandava alla capitale). Avevano il compito di rendere esecutive le delibere del senato locale e di confermare le nomine dei funzionari pubblici. Stringevano accordi con altre città e sorvegliavano l’adempimento di funzioni e feste religiose.

Lo staff del politico della colonia romana

Il singolo duumvir aveva a disposizione uno staff composto di due segretari (scribae), che avevano il compito di trascrivere gli atti ufficiali. Due fattorini (viatores), addetti al recapito di missive. Un assistente (accensus) che provvedeva a convocare le sedute delle assemblee.

Un archivista (librarius) per la compilazione dei registri patrimoniali. Un araldo (praecon) addetto alle processioni. Poi ancora un flautista (tibicen) e un indovino (haruspex) per l’interpretazione delle viscere degli animali o dei fenomeni celesti.

I duoviri, proprio come i consoli, erano infine scortati nelle pubbliche occasioni da due littori (lictores). Costoro li precedevano di qualche passo brandendo i fasci (fasces). Questi, a differenza di quelli attribuiti ai consoli, non recavano però la scure, simbolo del potere militare che solo le più alte cariche del governo centrale potevano gestire.

colonia romana
Iscrizione proveniente dall’anfiteatro di Pompei. Esempio di evergetismo promosso dai duoviri della colonia.

I duoviri quinquennali

Ogni cinque anni, nella nostra colonia romana, si eleggevano i duoviri iure dicundo quinquennales. Era questa senza dubbio la carica più ambita, poiché assommava alle prerogative appena viste quelle censorie.

Essere censori in epoca romana garantiva un enorme potere. De facto significava poter valutare status giuridico e patrimoniale dei cittadini, nonché la loro levatura morale.

Avendo la maggioranza delle cariche politiche rigidi requisiti patrimoniali e morali, ciò si traduceva nel diretto controllo su chi poteva accedere alla vita politica.

Gli edili

Appena al di sotto dei duoviri troviamo gli edili, anche detti duoviri aedilicia potestate (duoviri con potere edilizio). Talvolta si faceva riferimento ad ambedue le magistrature collegiali col termine di quattuoviri nude dicti.

Al pari dei colleghi di rango più elevato, gli edili erano eletti in coppia e il mandato aveva scadenza annuale. Si trattava di un vero e proprio trampolino di lancio per i rampolli dell’élite coloniale, essendo la carica requisito fontamentale per poter accedere al duovirato ed entrare a far parte del senato locale.

Le loro competenze nella colonia erano sostanzialmente di ordine amministrativo. Si occupavano della cura delle strade, della manutenzione di templi ed edifici pubblici. Gestivano gli organi di polizia urbana, si incaricavano della sorveglianza dei mercati e del controllo di pesi e misure ufficiali. Loro era la gestione dei ludi e degli spettacoli, nonché la vigilanza sull’occupazione del suolo pubblico.

Lo staff a disposizione degli edili era meno nutrito rispetto a quello dei colleghi di grado più alto. In linea di massima comprendeva uno scriba, un araldo, un flautista e un indovino. Ognuno dei quattro magistrati aveva inoltre a disposizione quattro schiavi forniti dalla città (servi publici).

Il senato locale

Il vero organo legislativo del nostro sistema era l’assemblea della colonia. Modellata sul senato di Roma, talvolta ne mutuava il nome, oltre ad alcune prerogative. Più spesso il senato locale era chiamato ordo decurionum.

La composizione numerica dipendeva sostanzialmente dalle dimensioni della comunità, ma si aggirava spesso attorno ai 100 membri. Farne parte era l’obiettivo di ogni cittadino con aspirazioni politiche. L’élite della colonia romana era in buona sostanza rappresentata dall’ordo.

Per accedervi era quasi indispensabile aver trascorso almeno un mandato in qualità di edile. A quel punto bisognava attendere l’elezione dei duoviri quinquennali. Loro infatti avevano l’ultima parola in proposito. Essi potevano in rari casi effettuare nomine indipendentemente dal requisito dell’edilità, dietro delibera dell’ordo stesso.

I poteri dell’ordo decurionum nella colonia romana

Tra le prerogative dei decurioni spiccavano le concessioni di suolo e di proprietà pubblici. Essi potevano non solo concedere a un privato di edificare su suolo pubblico, ma anche rimetterlo dall’obbligo di pagare l’imposta ad esso collegata (solarium).

Se i duoviri si occupavano di collaudi e appalti, all’ordo spettava la scelta di quali monumenti pubblici necessitassero di restauri. Loro era anche l’ultima parola su eventuali nuove edificazioni pubbliche, indipendentemente da chi fossero finanziate.

Sovrintendevano alle nomine dei prefetti (praefecti iure dicundo). Questi erano magistrati ad interim che subentravano ai duoviri in caso di assenze prolungate o decadimento della carica prima delle nuove elezioni. I decurioni avevano poi il controllo sulle nomine dei funzionari cittadini più importanti. Un esempio è il curator aquae, incaricato della distribuzione dell’acqua pubblica nella colonia.

Avevano infine autorità sulla concessione della cittadinanza romana agli schiavi manomessi. È noto infatti come, una volta liberati dai loro padroni, gli schiavi romani divenissero liberti, cittadini romani con alcune limitazioni. Questo passaggio però non era automatico, ma sottoposto a vincoli formali (approvazione dell’ordo ad esempio) e anagrafici.

Quali erano i costi della politica?

E’ importante porre l’accento sul fatto che gli oneri a carico della collettività erano assai modesti. Ogni singolo magistrato della colonia romana doveva provvedere di tasca sua al pagamento degli stipendi del proprio staff, secondo consuetudini minuziosamente codificate. Agli scribi ad esempio erano corrisposti 1200 sesterzi all’anno, mentre i littori ne guadagnavano 600.

Stesso discorso per i propri emolumenti. Fare politica nell’antica Roma non prevedeva alcun compenso. Assurgere alle più alte cariche dello stato, a livello locale o centrale, non garantiva ricchezza, semmai il contrario. Come si è giù avuto modo di ricordare, esistevano dei requisiti patrimoniali per poter accedere alla politica.

Da considerare poi è che, una volta eletti, i magistrati dovevano donare alle casse pubbliche una consistente somma di denaro. Ci si aspettava un loro generoso contributo per l’organizzazione di spettacoli e parate, e ogni forma possibile di evergetismo. Va da sé che solamente un’esigua minoranza di cittadini aveva possibilità di far carriera.

Non c’è da sorprendersi dunque se in tante realtà dell’epoca spesso le candidature spontanee scarseggiassero. La politica era un affare oneroso in un mondo che concepiva la democrazia in maniera piuttosto diversa da come la intendiamo oggi.

Massimo Marino

Bibliografia:

  • U. Laffi, Colonie e municipi nello Stato romano, Roma 2007.
  • G. Camodeta, L’attività dell’ordo decurionum nelle città della Campania dalla documentazione epigrafica, in Chaiers du Centre Gustav Glotz, 14, 2003.