Scarparo: l’ antica arte del ciabattino

Lo  “ Scarparo “ è l’antica figura di colui che si occupava della riparazione e manifattura di stivali, saldali e scarpe di ogni genere. Mestiere oggi non più tanto diffuso come nel passato, bensì un lavoro quasi scomparso e dimenticato. La vecchia arte del ciabattino, prima dell’avvento del consumismo, era un tipo di manodopera molto richiesta ed era assai ricorrente rivolgersi al calzolaio, poiché ai tempi, prima di gettar via un paio di scarpe, le si faceva risuolare più e più volte.

Dedicata allo scarparo – artigiano c’è una piccola poesia di Don Pompeo Mongiello che incarna molto bene la semplicità di un mestiere così caratteristico e lontano nel tempo:

“ C’era una volta,

un omino

tacito e curvo, su un pezzo

di cuoio,

con vera maestrìa

tagliato,

i pezzi già incollati

con spago impeciato

cuciva,

ed un paio di rozze scarpe

erano lì

ad aspettare

ancora

d’essere

colorate e lustrate

mentre le mani del poverino

colore

perdevano

e calli duri

gli spuntavano

come funghi

dopo

la pioggia”.

 

Scarparo
Calzolaio

Questo vecchio mestiere andava per la maggiore in Campania e un po’ in tutto il sud Italia. Il ciabattino era colui che produceva calzature per uomini, donne e bambini, in tempi in cui le scarpe rappresentavano un bene prezioso, dal momento che non tutti potevano permettersi il lusso di averne molte. Bisognava farsene bastare un paio, massimo due: uno per i giorni di festa e uno per quelli ordinari. Erano tanti i maestri capaci di realizzare calzature con materiale di primissima qualità, in pelle o in cuoio.

A differenza di quanto accade oggi con le produzioni industriali, prima si aveva la certezza di acquistare un prodotto di alto valore e , non essendoci punti vendita, era necessario attendere l’artigiano della scarpa!

Talvolta si potevano trovare anche, per le strade di alcuni paesi, i carretti del calzolaio con dentro attrezzi utili al lavoro … un lavoro di grande abilità e precisione che purtroppo è andato perdendosi e che si svolgeva spesso in piccoli spazi, con attrezzature molto precarie utili per “ li mezzetti” o “ li tacchi” e, dove tanti ragazzini chiedevano di essere “presi a discipulo” per imparare l’arte dello scarparo, all’ epoca molto ricercata.

Lo Scarparo ieri e oggi

Scarparo
“Ciccillo lo scaparo” – Fontanarosa (Av)

Nel passato, i calzolai erano così numerosi che, insieme al resto degli artigiani, formavano Corporazioni, Società Artigiane di Mutuo Soccorso. Tra le più antiche di queste associazioni, si ricorda quella dei Calzolai fiorentini, costituita verso la fine del 1200.

Il periodo di apprendistato di uno scarparo durava circa tre anni ed il rapporto tra maestri e discepoli era regolato da un apposito contratto. I nuovi potevano aprire bottega ma, lontano almeno 600 mt. dal maestro, per evitare ovvi conflitti d’interesse.

L’officina solitamente era un locale a piano terra e spesso il mestiere si tramandava di padre in figlio, non essendoci molti danari per proseguire gli studi. Gli apprendisti non percepivano compenso finchè non erano in grado di mettersi in proprio. La bottega era anche un luogo d’incontro, dove si chiacchierava dei fatti di cronaca; una sorta di “caffè letterario degli artigiani ”.

I materiali e le fasi del lavoro erano essenzialmente:

forma di legno (per riprodurre a misura la scarpa) ; sottopiede (striscia di cuoio messa sulla base della forma); tomaia (parte in pelle, ritagliata secondo una sagoma e montata con dei chiodi); il guardolo (striscia di cuoio cucita con la tomaia); suola; tacco (formato da vari strati di cuoio); la sformatura (avveniva dopo circa una settimana); e la lucidatura.

Era molto importante la resistenza della scarpa, soprattutto nelle famiglie più numerose, dove le calzature dovevano passare ai fratelli più piccoli.

Nella società moderna, il lavoro dello scarparo non è più tanto considerato, le scarpe vengono acquistate già fatte e a rimetterci è la qualità e, quando si rompono vengono direttamente buttate via.

Nonostante ciò però, bisogna riconoscere che a Novara esiste una vera Università dei Calzolai , così come rilevante è l’antichissima tradizione che vanta la produzione di sandali fatti a mano come quelli in stile Capri, o quelli bellissimi in cuoio prodotti nel Salento.

Lo Scarparo a Fontanarosa (Av)

Scarparo
Giuseppe Bianco, ultimo calzolaio rimasto a Fontanarosa (Av)

Nel paese di Fontanarosa, in provincia di Avellino, esisteva ed esiste ancora “ La Bottega de’ lo Scarparo ” seppur ne sia rimasto soltanto uno a mantenere viva la tradizione, ovvero Giuseppe Bianco che ha ereditato quest’arte e mestiere dal padre Luigi. Anni addietro, in questa piccola realtà, vi erano almeno 4-5 calzolai, tra cui noti sono: Luigi Pescatore, Giovanni Baialardo e quello che tutti conoscevano come “Ciccillo lo scarparo abbasc a l’acqua re la Maronna” in via Immacolata.  Stando ai racconti degli anziani del posto, lo scarparo del paese aveva la sua piccola attività, il più delle volte trasmessa dal “masto” e per stradine internate, nascosta nell’ odore umido di case e vicoletti in pietra. Con il suo “sonale” (grembiule) dipinto di pece che portava legato dal collo alle ginocchia, il calzolaio sedeva su di una sedia impagliata, con davanti lo scannetto degli utensìli del mestiere.

I ragazzini trascorrevano l’estate scorazzando scalzi “ pe’ sparagnà ” la suola delle scarpe, e le donne immerse nel lavoro dei campi, toglievano dai piedi i “ chianelli ” per preservarli in vista dell’inverno. Con l’arrivo della stagione fredda, infatti, la vetrina dello scarparo, coperta con fogli di giornale, tornava a riaprirsi con più frequenza: la gente andava a farsi mettere le “centrelle” (chiodi dalla testa larga) o “ li salvapunti” (difese di ferro inchiodate su punta e tacco) e non mancava la tipica frase del mastro: “ Co’ le scarpe che acconzo io, camminat cient’anni e sicuro non trase acqua “.

Sul tavolino da lavoro c’era il suo mondo: pece, martello, chiodini, forbici, trincetto, pinze e, qua e là, sparse scarpe in attesa di essere aggiustate o ritirate!

L’odore forte di suola si spandeva nella bottega e i più piccini lo trovavano gradevole, con ai piedi le loro scarpette rattoppate e che spesso avevano per lacci fili di ginestre, spago o corda.

Le mani di “Zi’ masto”, come lo chiamavano, sapevano di ruggine e, quando vedeva scarpe moderne subito s’intendeva se erano buone o no …

“Non duran manc tre iuorn”, così replicava l’abile artigiano dalla mano attenta e sapiente, a rivendicare il suo antico mestiere di scrupolosa ed acuta diligenza!

Pasqualina Giusto

Sitografia:

http://www.poesieracconti.it/poesie/opera-71641

Fonti multimediali:

https://www.youtube.com/watch?v=tlhw7Yb4dyQ

https://www.youtube.com/watch?v=EHPKs6–Qd0

https://www.youtube.com/watch?v=c-2XsbnHnoc