Musical al cinema per fuggire, contestare, cantare

 “Quando lavoravo in quella fabbrica sognavo di trovarmi in un musical perché nei musical non accade mai niente di terribile.” (Selma – “Dancer in the dark”, Lars von Trier)

Le origini

Sono gli anni ’30. Il ’29 ha portato con sé la crisi economica, e il ’32 l’elezione di Roosevelt. Che spazio poteva avere il cinema, una forma di divertimento che giocava sulla finzione? Nessuno?

E invece l’epoca roosveltiana è tra le più dinamiche e fiorenti della storia del cinema.

L’avvento del sonoro aveva portato il gioco di finzione ad un livello più alto: lo spettatore, nel suo perdersi tra gli sviluppi della trama, aveva il compito facilitato. Che per loro fosse una valvola di sfogo o un’ancora di salvataggio contro le dure dodici ore di luce, gli spettatori affluivano senza sosta nelle sale cinematografiche.

In questo contesto ha la sua fortuna il musical.

Fuggire a bordo di un musical

Cinema di consumo, tipicamente hollywoodiano, il musical sfruttava appieno le grandi innovazioni tecniche dell’industria cinematografica, mostrandosi come un complesso spettacolo stupefacente il cui contenuto puntava alla sospensione del quotidiano.

Se infatti da un lato le commedie dell’epoca tentavano di sdrammatizzare le difficoltà di ogni giorno traendone il lieto fine tipico dell’ottimistico cinema americano, il musical si volgeva sfacciatamente altrove.

Sul grande schermo arrivò Broadway, in una versione più accessibile alle tasche di tutti, e più magniloquente che mai.

Si trattava di puro divertimento, di una fuga attraverso le grandi scenografie e i balletti, il canto e la trama leggera: una sorta di mondo dei sogni che si prometteva raggiungibile per il prezzo di un biglietto.

Il musical impegnò le grandi case cinematografiche americane per tutti gli anni ’30, dividendosi in due grandi categorie.

Da un lato c’era il musical visto da dietro le quinte, che quindi giustificava la trama imperniata su musica e ballo tramite il racconto della loro realizzazione (allo stesso modo fu costruita anche la pellicola che aveva segnato il passaggio al sonoro, “Il cantante di jazz” di Alan Crosland, 1927): un esempio è “Quarantaduesima strada” (Lloyd Bacon – 1933).

Dall’altro lato – al bando il seppur minimo tentativo di verosimiglianza e… benvenuta leggerezza! – c’era il musical le cui vicende procedevano solo grazie ai numeri cantati e danzati.

Anni ‘50

Le liste nere che vennero scritte negli anni del maccartismo contribuirono a creare un clima soffocante nell’industria cinematografica, la cui solidità venne messa in bilico anche dall’avvento della televisione, ormai presente in quasi ogni casa.

Le case cinematografiche reagirono allora trasformando i film del cinema in uno spettacolo ancora più grandioso e tecnicamente avanzato, oltre che sempre più variegato.

Furono gli anni di “Un americano a Parigi” (1951) e “Spettacolo di varietà” (1953) di Minnelli, “Cantando sotto la pioggia” (Gene Kelly, 1952), “Sette spose per sette fratelli” (Stanley Donen, 1954), “Oklahoma!” (Fred Zinnermann, 1955)…

La differenza più evidente del musical degli anni ’50 è che non si configurava più come fuga dalla realtà, ma come trasformazione di quest’ultima in un’occasione per scoprire il lato entusiasmante della normalità: materia di spettacolo divennero certe situazioni meno favolistiche e – soprattutto con Minnelli – più drammatiche e malinconiche.

Contestazioni e innovazioni

Il musical continuò a evolvere, nella sua strana miscela di riflesso della realtà contemporanea ed edulcorazione a base di canto e ballo.

Così le contestazioni giovanili si tradussero nel ’71 in Jesus Christ superstar di Norman Jewison e nel ’75 in “The Rocky Horror Picture Show” di Jim Sharman, pellicole decisamente lontane dalle vecchie sognanti atmosfere gioviali.

E forme sempre nuove si susseguono nei decenni successivi.

Nel ’77 esce “La febbre del sabato sera” di John Badham, che consacrò John Travolta, e nel ’79 Hair di Milos Fordman, musical hippy per eccellenza.

Nell’80 vedono la luce “Fame” di Alan Parker, riadattamento del “backstage musical” in un più giovanile racconto ambientato alla High School of Performing Arts di New York, e “I Blues Brothers” di John Landis, forse già non più definibile musical.

Oggi

Dopo dei relativamente magri anni ’90, gli anni 2000 hanno poi trasformato il genere, in qualche modo assicurandone una rinascita.

È significativo che le due pellicole che forse possono essere definite l’apertura della nuova fase dei musical siano “Dancer in the dark” (2000), definito dallo stesso regista Lars von Trier un antimusical, e “Moulin Rouge!” (2001) di Baz Luhurmann, le cui canzoni non sono originali ma grandi successi riadattati.

La via è di nuovo libera, e ricompaiono le trasposizioni da Broadway e dal West End: “Chicago” (Rob Marshall – 2002), “Il fantasma dell’opera” (Joel Schumacher – 2004), “Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street” (Tim Burton – 2007), fino ad arrivare al mastodontico “Les Misérables” (Tom Hooper – 2012).

Cominciano a venir costruite trame sulla discografia di singoli artisti o band, da “Across the universe” (Julie Taymor – 2007) a “Mamma mia!” (Phyllida Lloyd – 2008).

L’insegnamento di “Fame” si scorge nei televisivi “High school musical” (2006) e “Glee” (2009-2015).

Sperimentazioni più o meno audaci, più o meno vincolare a Broadway, più o meno riuscite, si stanno facendo strada. Fatto sta che il luogo comune secondo cui il musical o lo si ama, o lo si odia, è un evergreen.

“Io non me ne intendo di musical. Perché tutt’a un tratto si mettono a ballare e a cantare? Cioè, io non mi metto improvvisamente a ballare e a cantare!” (Jeff – “Dancer in the dark”, Lars von Trier)

Chiara Orefice