Ibrido al “Teatro alla deriva”: l’ultimo di De Vincentis

La sesta edizione di “Teatro alla deriva”, rassegna teatrale affidata alla direzione artistica di Giovanni Meola, ambientata nel suggestivo contesto del complesso termale delle stufe di Nerone a Bacoli, ha ospitato nella data del secondo appuntamento della stagione,  il giorno 6 luglio 2017, “L’ibrido”, uno spettacolo firmato Giuseppe De Vincentis. Il regista, autore ed anche interprete dell’ ibrido si distingue per l’accortezza nella trattazione pregna di sensazioni ed avvenimenti che si possono conoscere effettivamente solo se le si è vissute, ed esporre tanto profondamente solo se si ha il coraggio di riviverle.

I topoi principali sono due, e De Vincentis, dopo ventotto anni di reclusione, li ha inscenati con cognizione di causa.

La tortura fisica e mentale del manicomio criminale, luogo di violenza autorizzata ed incontrollata, una violenza non convenzionale che svuota l’anima e la mente;  e la convivenza di più individui in un abitacolo ristretto, rapportabile tanto alla circostanza rappresentata, ovvero la compresenza di un animo femminile e di una componente maschile in un solo corpo, per l’appunto, ibrido, quanto, più figuratamente, al ricordo di una cella stretta e buia dalla quale con si può scappare e nella quale ci si sente incastrati.

La cella c’è; in mezzo a tutta quell’acqua , sopra quella zattera, la cella è nascosta dietro una finestra appesa ad un cappio. Una finestra stringata di sbarre. Pochi simboli, molti segnali.

Carmine (De Vincentis) e il suo alter ego Carmen (Simona Barattolo), si muovono su un tappeto di ricordi. Estratti dalla mente, bloccati sulla carta, perduti per la terra, calpestati dai loro stessi piedi nudi. I ricordi di una mente usurpata, si; una mente che però riesce ancora a raccontare. Una mente che raduna pensieri sparsi  e disordinati e li offre al pubblico; qualcuno colpisce, qualcuno torna indietro. Nel complesso, il filo dello spettacolo non è semplice da mantenere; è facile perderlo o farlo aggrovigliare.

Funziona, nel suo ruolo fortemente metaforico, la gestualità simpatica e la trasposizione rivisitata di un cappuccetto rosso un po’ noir; come trova una sua adatta collocazione la riscrittura tutta personale del libro della creazione.

Funziona nel suo ruolo comunicativo anche l’idea di caratterizzare in due diversi attori le due anime che convivono in un unico e ristretto insieme.

Carmen è palesemente agguerrita, aggressiva, scontrosa. Carmine appare indifeso, pulito, propenso a dare amore, di una tenerezza  a tratti disarmante.

Queste due realtà compongono il protagonista, sono imprescindibili al funzionamento del sistema, ma estranee fra di loro. Non compatibili. Non trovano compromesso. Formano un ibrido.

Non si incontrano mai occhi negli occhi, altrimenti sarebbero costretti a riconoscersi come due parti di un tutto, loro che giocano a fare i nemici; loro che  si infastidiscono reciprocamente, loro che non si accettano, loro che si vorrebbero liberare l’una dell’altro, loro che forse si ammazzerebbero a vicenda.

Ma sanno di non potersi muovere da là, convinti, intanto, che se non ci fosse l’altro, l’organismo funzionerebbe meglio. Bloccati in quell’ ibrido, è vero; ma finchè l’ ibrido è in vita. Finchè l’organismo è in vita. Ma l’organismo sono loro.

ibrido

Quindi, se poi finiscono per soccombere, entrambi, vittime di se stessi, o l’uno dell’altra, o di non essersi saputi tutelare, o difendere a vicenda; vittime della violenza, degli eventi, di come vanno le cose, vittime di una parte del tutto che predomina sul resto; l’interpretazione resta tutta personale.

A questo punto della vicenda, il microdramma dell’ ibrido si colloca all’interno di un macrodramma esistenziale.

I riferimenti all’esperienza di vita dell’autore si palesano in piccoli dettagli di facile individuazione; non c’è bisogno di alcuna illuminazione per leggere fra le righe del racconto di un Carmine bambino, che, fra i banchi di scuola, si trova a scontare castighi che vanno ben oltre quelli che gli toccherebbero per le sue proprie responsabilità.

De Vincentis ha scritto un testo interessante, per struttura, intensità, buona percentuale di contenuti ed espediente teatrale;  ma in una lingua deplorevole. Non per l’opzione vernacolare, che avrebbe potuto essere una scelta stilistica adeguata alle altre, ma per la tipologia di dialetto utilizzato; rude, brutale.

La scenografia ha sfruttato per bene il potenziale della zattera: il palco di fogli, memoria e ricordi; qualche rosa sparsa in giro che rende così tanto lo spazio di donna, ed un tempo eterno che non manca di farsi avvertire.

Un tempo eterno quello di Carmen, che è la più forte, ma dorme fra le rose.

Il prossimo appuntamento, domenica dodici luglio, vedrà in scena “Semi – Peccato, non esiste più l’amore platonico”, di e con Marina Cioppa e Michele Brasilio .

Letizia Laezza