Tommaso d’Aquino e la disputa sull’intelletto

La disputa circa la natura dell’intelletto possibile si sviluppa attorno al XIII secolo. In questi anni, si verifica una crescente riscoperta del testo aristotelico e una rapida diffusione dei commentari di Averroè. L’interpretazione averroista della filosofia aristotelica propone un modello esegetico, che rompe il sincretismo tradizionale di aristotelismo e agostinismo. Tra il 1250 e il 1260, alcuni maestri latini, seguaci dell’esegesi averroista, cominciano a divulgarne i capisaldi. Tommaso d’Aquino dal canto suo, si impegna a confutarne i presupposti filosofici.

L’intelletto separato

La diatriba sull’intelletto ha origine da un’ambiguità contenuta nel testo aristotelico. In particolare, nel III libro del De anima, Aristotele parla dell’intelletto come di una parte dell’anima, la cui natura sta nel ricevere il pensiero. Pertanto, l’intelletto è in un senso materiale e in un senso agente. Si definisce analogamente alla materia, giacché è in potenza tutte le cose che divengono oggetto della sua conoscenza. D’altro lato, funziona, rispetto ad esse, come causa agente. L’intelletto, come la luce, illumina gli intellegibili che sono potenzialmente contenuti nelle cose sensibili.

Fin qui, il discorso di Aristotole è costruito in modo lineare. Le difficoltà, tuttavia, insorgono quando il filosofo greco attribuisce all’intelletto agente, oltre l’impassibilità e l’essenza attiva, anche la separazione. Aristotele, però, non chiarisce in che termini l’intelletto sia separato né specifica che cosa voglia significare tale separazione.

L’esegesi di Averroè

Nel commento di Averroè, la separazione dell’intelletto viene a congiungersi con l’idea dell‘unità del principio intellettivo. L’intelletto materiale o passivo non è una facoltà dell’anima, intesa come forma del corpo. Al contrario, esso costituisce un’intelligenza separata, numericamente una per tutti gli individui.

L’intelletto entra in contatto con i singoli uomini per mezzo dell’immaginazione, da cui ricava le forme intellegibili. Queste ultime sono prodotte dall’intelletto attivo, anch’esso separato, che forma i concetti grazie ad un processo astrattivo operato sui fantasmi dell’immaginazione. Questa tesi è conosciuta anche come la tesi della copulatio o continuatio.

Che cosa deriva, a questo punto, dall’assunzione della separazione dell’intelletto? Si ottiene che l’immortalità possa essere riconosciuta solo all’intelletto. Ne consegue, inoltre, che le anime individuali siano mortali e corruttibili.

Il De unitate intellectus di Tommaso d’Aquino

Tommaso d'Aquino
Tommaso d’Aquino (1225-1274)

L’unicità dell’intelletto, dunque, risulta inconciliabile con il principio cristiano dell’immortalità dell’anima. Per questa ragione, la ripresa della dottrina averroista, operata da maestri come Sigieri di Brabante, destava grande preoccupazione. Serviva, a quel punto, che i teologi e i filosofi si impegnassero in una lettura alternativa del testo aristotelico. Tommaso, insieme ad Alberto Magno, è uno dei principali avversari dei cosiddetti averroisti.

Nel 1270, Tommaso scrive- probabilmente in risposta alle Quaestiones in tertium de anima di Sigieri- il De unitate intellectus. L’obiettivo programmatico di questo scritto è quello di confutare le tesi averroiste sul piano del discorso filosofico. Ovvero, Tommaso intende esattamente sottolineare che le posizioni, relative all’unicità dell’intelletto, siano frutto di un’errata esegesi dell’opera aristotelica. Pertanto, nella prima parte del testo, egli analizza non solo il testo di Aristotele, ma anche i commenti della tradizione peripatetica greca e latina. In tal modo, Tommaso dimostra l’infondatezza dell’interpretazione di Averroè, il “depravatore” delle parole dello Stagirita.

Hic homo intellegit

Il punto centrale della critica di Tommaso è riassumibile nell’affermazione “hic homo intellegit“, ossia “questo singolo uomo conosce“. La visione, secondo la quale l’intelletto muove il corpo come un motore, lascia insoluto il carattere personale della conoscenza. Non spiega, cioè, come il singolo uomo possa conoscere, nonostante l’unicità e la separazione dell’intelletto.

Tommaso, allora, dichiara che la sola soluzione accettabile sta nel riconoscere la piena unità di anima e corpo. La facoltà intellettiva è una potenza dell’anima, la quale raffigura la forma sostanziale del corpo. Sebbene sia congiunto al corpo, l’intelletto svolge la sua operazione in assoluta indipendenza rispetto alla materia:

“Se l’intelletto possibile è ciò per cui intendiamo, è necessario dire o che l’uomo singolare che intende è lo stesso intelletto, oppure che l’intelletto gli inerisce formalmente; non certamente in modo da essere forma del corpo, ma perché è una potenza dell’anima che è forma del corpo.”

In quanto principio immateriale, esso esiste per se stesso e riceve da se stesso la specie e l’individuazione. L’anima è, quindi, forma del corpo, ma sussistente come le sostanze separate.

Alessandra Bocchetti

Bibliografia:

Tommaso d’Aquino, Unità dell’intelletto, a cura di A. Ghisalberti, Bompiani, Milano 2008.

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L’immagine di copertina è ripresa dal sito: http://www.artspecialday.com