Malattia e alienazione nelle pagine di Pirandello e Mann

In Enrico IV di Pirandello e La montagna incantata di Mann, la malattia,è
intesa come alienazione da un mondo che cade a pezzi, il punto focale che caratterizza le storie di personaggi che si arroccano in altre dimensioni mentre il mondo cade a pezzi.

Colmare le distanze

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Luigi Pirandello

Lubecca Agrigento non potrebbero essere due città più distanti, geograficamente e concettualmente. La prima affaccia quasi sul Baltico ed è bagnata dal Trave, faceva parte della Lega anseatica[1] ed è una città commerciale e borghese; sarebbe più facile compararla a un’altra rilevante città letteraria: Trieste. Di fronte alla seconda invece c’è l’Africa e lo scirocco accarezza la Valle dei templi; certamente non si può dire che sia la capitale dell’impresa commerciale europea. Eppure, nella modernità, lo spazio e il tempo collassano su loro stessi.

Thomas Mann era di Lubecca e qualcosa di Lubecca si può scovare in buona parte delle sue pagine. Da giovane frequentò la scuola commerciale, accollandosi il fardello della successione nell’impresa familiare. Appena il padre morì, la ditta di famiglia fu liquidata e dopo un po’ Mann andò a Monaco e si iscrisse all’università.

Luigi Pirandello nacque ad Agrigento, all’epoca Girgenti, il cui primo legame con il nord è che furono i Normanni a chiamarla così. Come per Mann, il padre voleva che seguisse studi tecnici per poi ereditare la sua miniera di zolfo, ma Pirandello si iscrisse a Lettere, e tra l’altro la tesi la diede in Germania: un lavoro linguistico sul dialetto agrigentino.

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Thomas Mann

A Roma, una città relativamente più vicina ad Agrigento, Mann approfittò del mite clima mediterraneo per leggere i russi e gli scandinavi e iniziare a scrivere; a volte anche l’Italia riappare nei suoi scritti. Fu nel 1924 che Mann pubblicò Der Zauberberg (La montagna incantata), la cui idea riflette le impressioni della sua visita alla moglie Katharina Pringsheim, a quel tempo sofferente di una malattia polmonare, in un sanatorio a Davos in Svizzera.

Parallelamente, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano. La moglie dell’agrigentino, come quella di Mann, fu ricoverata in una clinica per la sua malattia mentale, lei però in quella clinica vi morì. Nel 1922, due anni prima de La montagna incantata, Pirandello mise in scena Enrico IV.

A chilometri di distanza, Lubecca e Agrigento sembrano avvicinarsi, avvilupparsi attraverso nebulose associazioni di immagini e di idee, frutto delle menti scrutatrici di due visionari.

Enrico IV: incatenarsi nel «bujo»?

Tutto nel mondo è burla.

L’uom è nato burlone,

la fede in cor gli ciurla,

gli ciurla la ragione.

Tutti gabbati! Irride

l’un l’altro ogni mortal.

Ma ride ben chi ride

la risata final.

(A. Boito-G. Verdi, Falstaff)

Solo due anni prima la pubblicazione de La montagna incantata, Pirandello metteva in scena per la prima volta Enrico IV. Nel testo teatrale, il nobile del primo Novecento, del quale, quasi a fissarlo nella sua identità fittizia, mai sapremo il nome, prende parte alla cavalcata in costume che gli segnerà l’esistenza tutta. Durante la recita carnascialesca, il suo rivale in amore, Tito, lo disarciona, e colui che chiameremo Enrico batte la testa, convincendosi di essere realmente il personaggio storico di cui vestiva il costume. Inizia così il tragico viaggio del «grande Mascherato»[11] nell’abisso della sua mente, traumatizzata dalla «brutalità d’un sasso»[12].

Anche quando, molti anni dopo, Enrico pare essere “guarito”, riaprendo «gli occhi a poco a poco»[13], si accorge che gli si sono ingrigiti i capelli, ed è «diventato grigio tutto»[14]. Il suo attimo di lucidità rappresenta per lui uno shock addirittura più grande di quello originale: egli comprende che Tito lo ha disarcionato volontariamente e che così gli ha rubato l’amore di Matilde e gli ha distrutto l’esistenza. Decide così di fingersi ancora pazzo, di incatenarsi nella sua maschera per non ravvisare la dolorosa realtà:

ENRICO     Preferii restar pazzo – trovando qua tutto pronto e disposto per questa delizia di nuovo genere: viverla – con la più lucida coscienza – la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d’un sasso che m’aveva ammaccato la testa! La solitudine – questa – così squallida e vuota come m’apparve riaprendo gli occhi – rivestirmela subito, meglio, di tutti i colori e gli splendori di quel lontano giorno di carnevale […] .[15]

Quando nel tentativo di far risalire a galla il trauma, il dottore propone la «controburla»[16] dei ritratti viventi, con Matilde interpretata dalla figlia Frida, avviene il tragicomico svelamento. La mente di Enrico a poco a poco si era assuefatta a un “impero di addobbi, arredi del suo finto castello: la «buja»[17] sala del trono, i ritratti, le stoffe, e la sua «lampa ad olio»[18], che nel «bujo»[19] un po’ gli illuminava il cammino. Quando intorno a lui, barcollante per la visita imprevedibile della donna amata e del suo nemico, tutti gli equilibri si spezzano e la finzione, lacerandosi, svela l’inganno della follia dissimulata, addobbi, stoffe, troni e arredi, accumulati nel tempo per la più rigorosa delle recite, si trasformano in anticaglie inutili. Ad eccezione, però, di quella piccola lampa ad olio, che il protagonista continua a tenere stretta a sé[20], almeno fino al punto in cui egli crolla davanti a Frida, ritratto della madre da giovane.

Dopo una lunga disquisizione su chi è pazzo e chi no, il «grande Mascherato» abbraccia la ragazza, Tito si oppone, Enrico sguaina la spada e lo trafigge. Il gesto non è una vendetta per gelosia, ma l’esasperato bisogno di ergere un muro di fronte al passato: odiando e spaventando tutti, Enrico potrà continuare a fingersi pazzo, sottraendosi al fluire del tempo e vivendo gli anni che gli restano in “pace”.

Assurda e commovente è la metafora del prete irlandese, con cui Enrico consolida, davanti agli occhi di tutti, la sua condizione di sanità rovesciata e difende la sua serietà con l’umorismo, burlando i gabbati che lo circondano:

ENRICO     Guardate, dottore! – Ricordo un prete – certamente irlandese – bello – che dormiva al sole, un giorno di novembre, appoggiato col braccio alla spalliera del sedile, in un pubblico giardino: annegato nella dorata delizia di quel tepore, che per lui doveva essere quasi estivo. Si può star sicuri che in quel momento non sapeva più d’esser prete, né dove fosse. Sognava! E chi sa che sognava! – Passò un monello, che aveva strappato con tutto il gambo un fiore. Passando, lo vellicò, qua al collo. – Gli vidi aprir gli occhi ridenti; e tutta la bocca ridergli del riso beato del suo sogno; immemore: ma subito vi so dire che si ricompose rigido nel suo abito da prete e che gli ritornò negli occhi la stessa serietà che voi avete già veduta nei miei; perché i preti irlandesi difendono la serietà della loro fede cattolica con lo stesso zelo con cui io i diritti sacrosanti della monarchia ereditaria. – Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! – Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia.[21]

La montagna incantata, microcosmo dell’Europa di fin de siècle

Compiuto ch’ebbe il trentesimo anno, Zarathustra abbandonò patria e lago natio, e andò sulle montagne.

(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

Se Mann iniziò a scrivere La montagna incantata nel 1912, concependo inizialmente il progetto come un racconto breve ispirato dalla visita alla moglie in Svizzera, fu la guerra a interrompere il lavoro e a indurre l’autore a un sostanziale riesame di esso, conclusosi con la pubblicazione nel 1924. La montagna incantata diviene un Bildungsroman che è microcosmo della società europea del tempo: i personaggi sono tutti esponenti, rappresentanti e messaggeri di territori, principi e mondi spirituali.[2]

Hans Castorp, «mediocre ingegnere»[3] di Amburgo che fa visita al cugino Joachim Ziemssen in un sanatorio svizzero e scopre di essere malato anch’egli, è la personificazione delle contraddizioni della Germania del Jahrhundertwende, in una lingua più dolce fin de siècle: laboratorio di cultura e umanesimo, fucina di pensiero e di sperimentazioni e insieme luogo di tensioni e contraddizioni, dove la luce convive con l’ombra[4].

Hans, «guilless fool»[5], sulla montagna riceve un «incremento»[6] che lo rende capace di avventure morali, spirituali e sensuali, che nel mondo detto sempre ironicamente “pianura” egli non avrebbe mai osato sognare.[7] E così non trova pace, dibattendosi tra l’”apollineo” umanesimo di Ludovico Settembrini e il “dionisiaco” radicalismo di Leo Naphta, le cui dispute dialettiche si fanno sempre più accese, fino a un tragico epilogo.

Hans incarna una generazione “perplessa”, che non trova uno scopo per unirsi in uno sforzo comune: quand’egli imbocca il termometro, questo segna trentasette e sei; né sano né malato, è incatenato in un limbo di decimi di febbre, e anche quando sembra guarito si rifiuta di lasciare il sanatorio.

Tra l’altro, uno dei motivi del suo sveviano rimandare la guarigione è anche la presenza di Clavdia Chauchat: Hans è morbosamente ossessionato da lei, donna dagli occhi chirghisi e incarnazione della libidine. Ad accompagnarla c’è Pieter Peeperkorn, rivale in amore dal quale però Hans rimane fortemente affascinato.

La tragica uscita di scena dell’olandese e, a seguire, le scelte finali di Hans, sono sintomo e presagio della direzione in cui sta andando il mondo, negli attimi in cui questo fa capolino sulla montagna tramite i personaggi che la vivono, i quali lì vanno a cercare rifugio dal mondo stesso e attendono la morte. L’«oscura apprensione» della fin de siècle, che con Degenerazione Nordau[8] tentava di arginare, va fissandosi invece in angoscia esistenziale, determinando un diverso arcuarsi dell’attesa. Il futuro vissuto come «aspettativa» di un tempo che incombe minaccioso spinge istintivamente i personaggi a contrarsi.[9] I personaggi de La montagna incantata, consumavano gli anni in attesa di morire: «il modo prevalente del loro futuro era l’aspettativa passiva. Al Berghof, i pazienti si raggomitolavano nelle loro poltrone e attendevano gli assalti della malattia, come pochi anni dopo i soldati alla linea del fronte si sarebbero raggomitolati nelle loro buche […]»[10].

Il tema della malattia come alienazione

La malattia, intesa come alienazione da un mondo che cade a pezzi, rigurgito originato dalla distanza e dall’estraneità nei confronti di una realtà-mostro, si traduce, nell’espressione letteraria, in un proliferare di personaggi nevrotici, inetti, privi di qualità.

Ne La Montagna incantata la malattia è il muro che separa i personaggi dalla fobia di una vita attiva. I pazienti del sanatorio Berghof soffrono di patologie polmonari e le tappe della loro cura scandiscono la divisione di un tempo liquido.

La malattia è fatale per molti di loro, ma, oltre alle morti naturali, sono due coloro che si suicidano, e alla fine un altro – possiamo solo immaginarlo – si dirigerà verso il battesimo della morte. Hans, nel corso delle sue esperienze, oltrepassa la sua innata devozione alla morte e comprende una mentalità umana che non ignora razionalmente né disdegna, è vero, l’idea della morte né i lati oscuri e misteriosi della vita, ma li include senza lasciarsene dominare nello spirito. Egli impara a comprendere che ogni sanità superiore dev’essere passata attraverso la profonda esperienza della malattia e della morte, come anche la conoscenza del peccato è premessa necessaria della redenzione. Questa concezione della malattia e della morte come passaggio obbligato al sapere, alla salute e alla vita fa de La montagna incantata un romanzo di iniziazione.[22]

È un’immagine forgiata dalla critica, che però appassionò lo stesso Mann, quella dell’Hans «cercatore del Graal»[23], il quale, come nel capitolo Schnee (Neve), smarrito in altitudini mortali, sogna il suo onirico poema dell’uomo. Il Graal che egli, anche se non lo trova, intuisce nel suo sogno quasi mortale prima di essere trascinato dalla sua altezza nella catastrofe europea, è l’idea dell’uomo, la concezione della malattia e della morte. Il Graal è un mistero, ma tale è anche l’umanità: poiché l’uomo stesso è un mistero, e ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano.[24]

Dal canto suo, la disgrazia di Enrico lo conduce all’alienazione e alla rottura totale non solo con il presente, ma anche con la fattualità del passato e la speranza dell’avvenire. Dire che la malattia di Enrico sia solo follia, prima vera e poi simulata, è riduttivo: egli soffre della psicosi generata dall’incapacità di adattarsi a quella realtà-mostro, in cui irrimediabilmente non può trovare posto. Per questo, l’identità fittizia nella quale si rinchiude rappresenta la sua “salvezza”, se così si può dire.

Enrico e Hans fanno parte della lunga schiera di personaggi che tentano disperatamente di appigliarsi, arroccarsi in altre dimensioni, come per sfuggire al vortice di un buco nero. Come Enrico, dopo aver riottenuto la lucidità, sceglie di fingersi ancora pazzo, così Hans, dopo la guarigione dalla tubercolosi, decide di rimanere sulla montagna finché non avrà il pretesto di “scendere” verso la morte.

Nicola De Rosa

Note

Una produzione RAI di Enrico IV https://www.youtube.com/watch?v=vpP1uHXaooM

[1]La Lega anseatica fu un’alleanza di città che tra il XII e il XVI secolo mantenne il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa affacciata sul baltico.

[2] Da T. Mann, La montagna incantata. Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, contenuto in T. Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano, 1992, p. 694.

[3] Ibidem.

[4] Qui intendiamo il concetto di Jahrhundertwende volutamente esteso fino alla fine della Repubblica di Weimar.

[5] Da T. Mann, La montagna incantata. Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, contenuto in T. Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano, 1992, p. 696.

[6] Ivi, p. 692

[7] Ivi, p. 694.

[8] Max Nordau, sociologo e medico ungherese.

[9] S. Acocella, Effetto Nordau. Figure della degenerazione nella letteratura italiana tra Ottocento e Novecento, Liguori, Napoli, 2012, p. 142.

[10] Ibidem (tra virgolette S. Acocella cita S. Kern, Il tempo e lo spazio).

[11] L. Pirandello, Enrico IV. Tragedia in tre atti, R. Bemporad & figlio, Firenze, 1922, p. 112.

[12] Ivi, p. 132.

[13] Ivi, p. 130.

[14] Ivi, p. 131.

[15] Ivi, pp. 132-133.

[16] Ivi, p. 127.

[17] Ivi, p. 119.

[18] Ivi, p. 112.

[19] Ibidem.

[20] S. Acocella, Controluce. Effetti dell’illuminazione artificiale in Pirandello, Liguori, Napoli, 2006, p. 27.

[21] L. Pirandello, Enrico IV. Tragedia in tre atti, R. Bemporad & figlio, Firenze, 1922, p. 134.

[22] Da T. Mann, La montagna incantata. Lezione per gli studenti dell’università di Princeton, contenuto in T. Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano, 1992, pp. 694-695.

[23] Ivi, p. 696.

[24] Ivi, p. 697.