Delitto e castigo e il cinema: tre film con le sue caratteristiche

Un celeberrimo romanzo russo, sconosciuto a pochi, ha come soggetto un concetto semplice e ampio comunemente chiamato “senso di colpa”. Dostoevskij, con quel senso di colpa, modellò un personaggio destinato a rimanere emblematico: Raskolnikov. Di lui fece in primo luogo il soggetto di un atto criminoso, e in secondo l’ingranaggio di un paranoico arrovellamento che conduce al bisogno di scontare una pena: “Delitto e castigo” è appunto il titolo di quel romanzo.

Lo sconfinato numero di specifiche sensazioni, emozioni, azioni e reazioni che derivano dal senso di colpa potrebbero essere tutte considerate come diverse declinazioni di una stessa àncora che inchioda l’essere umano al passato e che lo trascina in basso. Ma proprio per questo, per essere sia fondamento di molteplici e differenziate manifestazioni esteriori, sia tortura che la ragione infligge a se stessa, è una manna per gli artisti.

…Perché si sa che l’arte nasce da tempi bui della Storia come della mente; dal dolore piuttosto che dalla felicità.

Rifiutare il delitto, deviare il castigo

Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) è un investigatore spedito su Shutter Island, all’Ashecliff Hospital, ad indagare sulla scomparsa di Rachel Solando (“Shutter Island” di Martin Scorsese – 2010).

È davvero semplice l’accettazione dei ruoli da parte dello spettatore! Almeno uno degli elementi dati dal contesto è solido, è uno scoglio a cui aggrapparsi nella confusione di schizzi marini che domina su un’isola abitata da pazzi criminali e medici assuefatti dalla penombra. Teddy Daniels è la giustizia: da lui verrà il castigo. Chi ha rapito Rachel Solando ha commesso il delitto, e su di lui quella giustizia si imporrà severa.

E poi anche quello scoglio comincia ad essere scivoloso, instabile, fragile. Quando si sgretolerà, Teddy Daniels riemergerà alla verità degli eventi, e il delitto, prudentemente incapsulato nei recessi della propria memoria, gli si porrà come verità oggettiva, concreta, troppo vasta e tangibile per potervi sfuggire all’esterno. Ecco infatti cosa aveva fatto il sedicente investigatore: era fuggito nell’unico luogo che la realtà poteva difficilmente raggiungere e invadere. La sua mente.

Ma quel suo stesso subconscio che gli faceva da nido protettivo era destabilizzato, esigeva che una punizione riportasse l’equilibrio tra delitto e castigo. Ed era un bisogno talmente impellente da fare in modo che a livello conscio Teddy Daniels diventasse il suo braccio destro, il giustiziere, il castigatore di un colpevole introvabile se non allo specchio.

Oblio è il delitto e castigo è la veglia

Perché Trevor (Christian Bale) non riesce a dormire? Cosa ha fatto per meritarsi questo castigo? Perché lo accetta con così sottomessa rassegnazione? È forse consapevole di meritarlo? Ha commesso un delitto? E qual è questo delitto?

“L’uomo senza sonno” (Brad Anderson – 2004) comincia così: con il castigo, l’insonnia. C’è, non si discute, è la realtà di Trevor, operaio qualunque. Ma perché? Trevor non vuole domandarselo, e Trevor vuole rispondere. Due lati di sé in lotta, l’uno colpevole l’altro giudice, l’uno deciso a obliare la colpa e l’altro a ritrovarla, entrambi impegnati a giocare a guardia e ladri nel labirinto che è la mente umana. L’uno è Teseo l’altro il Minotauro, e Arianna è la memoria: il filo rosso che disegna il percorso verso l’uscita è l’unica via di salvezza dalla pazzia. Trevor dovrà ricalcare le proprie orme all’indietro fino all’ingresso del labirinto, per scoprire cosa lo ha condotto al suo interno.

È così semplice: ha commesso un crimine, e deve arrivare la pena formale. Perché allora, oltre a quella, c’è un secondo castigo così complesso e subdolo come l’insonnia?

Perché esso risponde a un secondo delitto: aver dimenticato il primo. C’è dunque un piano esterno e formale e un piano del subconscio. Se sul primo possono essere altri uomini, le forze dell’ordine e una giuria, a risolvere la situazione, sul secondo piano è solo lo stesso Trevor a dover fare giustizia.

Da bambina delitto e da adulta espiazione

“Espiazione” (2007) è il secondo film che Joe Wright dirige, basandosi sull’omonimo romanzo di Ian McEwan e scegliendo Saoirse Ronan, Romola Garai e Vanessa Redgrave come volti del terzo Raskolnikov che prenderemo in considerazione. Tutte e tre interpretano Briony Tallis, la colpevole, ma in una diversa fase della sua vita.

Saoirse Ronan è la bambina che denuncia un innocente, Robbie (James McAvoy), provocandone l’arresto e in un certo senso il suo triste destino di soldato. Soprattutto, la sua colpa è aver privato sia lui che la propria sorella, Cecilia (Keira Knightley), della possibilità di essere felici insieme.

Aristotele, nella sua “Poetica”, scriveva che uno dei modi migliori per suscitare pietà e paura nello spettatore è narrare di un personaggio, né migliore né peggiore di tutti gli altri esseri umani, che si macchia di una colpa senza volerlo e senza nemmeno esserne consapevole in un primo momento, ma rendendosene conto più in là. [1]

Romola Garai è la Briony che se ne rende conto. L’onda d’urto del suo senso di colpa è devastante, ma non distruttivo, anzi: come reazione, Briony pretende da se stessa di diventare una persona migliore. È tempo di guerra, e in quanto ragazza fa tutto quel che può per essere utile, costringendo la propria natura di bambina viziata e coccolata a rendersi umile come infermiera. E quando poi arriverà la conferma di aver sbagliato, da piccola, sarà anche il tempo di maturazione di quello che era sempre stato solo un eventuale dovere futuro: incontrare sua sorella è infatti, d’improvviso, un’impellente necessità, benché anche la sua paura più grande.

Vanessa Redgrave è una donna anziana, adulta, consapevole. È la donna dell’espiazione, o meglio, è l’ultimo stadio di un’espiazione autoinflitta durata tutta la vita. Si può dire che sia serena: non ci sono ombre o nuvole nella visione che ha del suo passato, ma anzi esso le risulta chiaro e semplice. Lei è colpevole. È la sua condizione: ad essa si può rispondere morendo sotto il peso del senso di colpa, oppure conciliandosi con l’infelice ruolo giocato per avere la forza di provare a rimediare.

Chiara Orefice

[1] Aristotele, Dell’Arte Poetica a cura di Carlo Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, Milano, XI edizione: 2010, pp. 46-49.