Economia: i concetti e le correnti economiche

L’economia è una materia che ne racchiude al suo interno di infinite: finanza, marketing, contabilità, organizzazione aziendale, politica economica e molte altre.

Storia
Oggi ci occuperemo dell’ultima citata, inziando dalla sua nascita. Durante l’Ottocento nasce l’economia politica, che si occupa dei problemi come la determinazione dei prezzi in uno o più mercati, i primordi di domanda ed offerta. Ad inizio Novecento, essa si scinde in microeconomia (studio di settori, mercati, oligopoli, concorrenza perfetta e simili) e macroeconomia (equilibrio economico nazionale, teorie del pieno impiego e della domanda).

Siamo ad inizio Novecento, inizia a crescere il ruolo dello Stato all’interno dell’economia attraverso la garanzia di sicurezza sul lavoro (in Italia, ad esempio, viene istituito l’Inail che riunisce una serie di istituti giuridici già esistenti) e la nascita delle grandi industrie internazionali (Fiat, Cirio, Ford ecc.).

Ciò implica una presenza statale importante nell’economia, se non altro come regolatore, ma è qui che si accende la discussione politica e nasce la politica economica, ossia uno studio della macroeconomia e degli agenti che definiscano modelli matematici a giustificazione di un intervento e di una presenza statale o di una teoria del “laissez-faire”, di scarsa intromissione governativa nell’economia, ossia di libero scambismo, abbreviato spesso in liberismo.

Economia, le correnti

Il liberismo è sicuramente la corrente economica di più antica fondazione, avendo i suoi primordi in “La ricchezza delle nazioni”, 1776, di Adam Smith e trovando notevoli contributi durante il Novecento.

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Adam Smith

Nei secoli successivi, l’antagonista del liberismo è sicuramente il keynesismo.
Non possiamo considerare fra gli antagonisti il comunismo poché esso teorizza una abolizione del capitalismo, mentre Keynes aveva proprio specificato Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi”.

Stiamo giungendo al cuore della questione. Quali sono i fondamenti del libero scambismo e del keynesismo?

Il liberismo (da qui in avanti teoria classica o del pieno impiego indifferentemente), fa parte di quel novero di precetti che possiamo racchiudere in “teorie del pieno impiego”.
Esse presumono che il mercato possa giungere automaticamente ad un equilibrio che abbia assenza di disoccupazione involontaria.
Ciò significa che, per un determinato livello del salario reale, è massima l’occupazione. Come si determina il salario reale? Togliendo dal salario monetario gli effetti dei prezzi, cioè salario nominale diviso livello generale dei prezzi.

Questa grandezza mi dice quanto è possibile comprare con il salario nominale in termini di pane, pasta, trattori, auto e così via.

Perché conviene essere al pieno impiego? Stiamo supponendo di essere in un mercato concorrenziale, quindi le imprese massimizzano, in base a teorie microeconomiche, quando il prezzo è uguale ai ricavi marginali. Dunque r.m.=p, ma p deve essere uguale anche ai costi marginali, i quali sono uguali a r.m.

Se non bastasse, la produttività marginale del lavoro è crescente fino ad un certo punto e determina l’offerta di lavoro. La produttività marginale ci dice che, in situazioni normali, un lavoratore in più quanto produce di più. Più i lavoratori aumentano, minore sarà il prodotto in più poiché la capacità tecnologica è fissata nel breve periodo.

In sintesi: le imprese massimizzano i loro profitti quando la loro produttività marginale del lavoro è uguale al salario reale, in modo da avere la massima occupazione.

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John Maynard Keynes

Se il mercato del lavoro è al pieno impiego, cosa mi assicura che il prodotto troverà una domanda ad esso corrispondente? In maniera molto più spiccia, qual è il meccanismo che mi dice: produci quanto ti pare e porta tutto alla piena occupazione perché troverai chi compra tutto? La legge di Say, secondo cui “ogni prodotto incontra la domanda corrispondente”.

In altre parole: 1. La dizione dei classici in base alla quale “La moneta in tasca scotta”, quindi tutti tendono a spende od investire; 2. il fatto che risparmio ed investimento siano in equilibrio, lo siano mediante il tasso d’interesse. Quindi “tutto ciò che non è risparmio è investimento” e “ciò che non è investito dalle famiglie è investito dalle imprese”.

Questo sistema ha anche una teoria monetaria, che è definita teoria quantitativa della moneta. Essa è un’equazione molto semplice: la moneta nel sistema, moltiplicata per la velocità di rotazione della stessa, è uguale al prodotto di prezzi e reddito.

Nel breve periodo, però, velocità di rotazione della moneta e reddito – di pieno impiego, ndr– sono dati, quindi la moneta non ha alcun effetto nell’economia reale poicé un aumento dell’offerta di moneta determina solo ed esclusivamente un aumento dei prezzi.

Questo significa che, nei sistemi classici, la teoria della moneta si risolve in una teoria dell’inflazione. Maggior moneta significa solo maggiore livello dei prezzi e null’altro. Gli economisti classici erano, infatti, soliti dire “La moneta è un velo che riveste le grandezze reali, ma non le modifica”.

Ora, avendo dato un quadro macroeconomico, possiamo trarre le conseguenze di politica economica di questo complesso sistema.

Se è vero -e lo è, ndr– che i lavoratori si offrono selezionando la scelta ottima tra tempo libero e lavoro (maggior salario significa maggior costo del tempo libero, ovviamente) e le imprese massimizzano producendo il più possibile, considerando che produttività marginale e che la domanda si genera da sola, è ovvio che qualsiasi ostacolo alla libera determinazione del salario sarà un ostacolo al raggiungimento del pieno impiego. Ecco perché le teorie liberiste sono in aperta contraddizione coi sindacati: essi rappresentano un ostacolo al raggiungimento del massimo beneficio sociale per lavoratori ed imprese.

Se siamo al pieno impiego, la produzione è comprata da imprese e famiglie sempre e comunque perché se le famiglie risparmiano, le imprese investono e viceversa. Se questo è vero, la spesa pubblica non ha senso di esistere, o almeno deve garantire le infrastrutture di base (istruzione, strade e sicurezza)
Qualora lo Stato volesse intervenire, non produrrebbe risultati poiché siamo già al pieno impiego, non c’è capacità produttiva inutilizzata, dunque non si può fare meglio di così.

Non avrebbe senso nemmeno una manovra redistributiva perché siamo sicuri che un operaio spende quasi il 100% del suo salario, mentre un dirigente Fiat probabilmente (il 50, 60). Sembra comprensibile: se si guadagnano anche 2.000 euro al mese, si spenderà quasi tutto il mensile per vivere, mentre avere un reddito di 200.000 euro all’anno implica che una buona quota sarà risparmio.

Voler redistribuire tramite le tasse, dando a chi ha meno, non ha senso perché il risparmio non ci danneggia in alcun modo. Se, per paradosso, nessuna famiglia spendesse più un euro per un periodo, le imprese investirebbero per sé, migliorando la loro capacità produttiva, e per le famiglie.

Lo Stato non deve fare altro che garantire i servizi di base: è questo il nocciolo delle teorie del pieno impiego.

Chi ha letto questo articolo, da domani in poi saprà che ovunque ascolti manovre che non tendono alla redistribuzione della ricchezza e/o che giovino il risparmio a parlare è una persona influenzata dal pensiero liberista.

Idem dicasi per chi, durante un discorso su disequilibri nell’economia, affermerà convintamente “Il mercato si regola da solo” o chi afferma categorico “Dobbiamo migliorare la produttività, altrimenti non andiamo da nessuna parte”, sottintendendo “Produciamo di più poiché sicuramente avremo una domanda di beni pari a quelli prodotti ed offerti”.

Tutto questo discorso ha dominato la scena economica fino alla Seconda Guerra Mondiale, periodo in cui si affermano in maniera prepotente le idee di John Maynard Keynes, di cui parleremo nel prossimo articolo.

Ferdinando Paciolla