The Hunted: il mito di Abramo secondo Friedkin

La guerra miete vittime anche quando sui campi di battaglia non si spara più. Da sempre e per sempre, purtroppo, oltre ai tanti morti dovuti al combattimento, i conflitti armati hanno sempre portato generazioni intere all’emarginazione. Tanti uomini, tanti giovani, si sono ritrovati a dover misurarsi, in occasione del proprio ritorno alla vita “civile”, con una realtà in cui non si riconoscevano più. The Hunted – La preda è uno dei film meno celebrati di William Friedkin, ma affronta in maniera efficace il tema del “reduce”.
Il cinema americano si è occupato in verità molto spesso di questo tema (in modo diretto o indiretto), con produzioni grandi (“Il cacciatore”; “Apocalypse Now”; “Rambo”; “American Sniper”) o più piccole e indipendenti (“Harsh Times”; “Nella valle di Elah”). Nel 2003 il grande regista di Chicago decise di occuparsi a modo suo della violenza che impregna l’animo di chi è stato sul campo di battaglia e che, con la mente, è purtroppo rimasto lì.

Aaron Hallam (Benicio Del Toro) è un “eroe” della guerra in Kosovo. Dopo essersi ricoperto di gloria sul campo di battaglia e aver visto fare (e fatto) cose che un essere umano non dovrebbe mai vedere, non riesce più a ritornare alla propria vita. Quello che inizialmente può essere interpretato come un disturbo post-traumatico da stress (DTPS), si trasforma ben presto in una incontrollabile follia.
Aaron si rifugia nelle foreste dell’Oregon, dove comincia ad attaccare tutti i cacciatori di cervi che si aggirano in quei luoghi. Dopo averne uccisi quattro e smembrato i loro corpi, l’Fbi si mette sulle sue tracce.
Si capisce fin da subito che il serial killer è una persona con un istinto di sopravvivenza e un’abilità nel combattimento non comune e si decide, quindi di rivolgersi ad una personalità altrettanto esperta.
Viene quindi reclutato lo schivo L.T. Bonham (il sempre immenso Tommy Lee Jones), istruttore di combattimento corpo a corpo per le forze speciali dell’esercito americano, di cui Aaron era l’elemento di punta. Bonham dopo il pensionamento ha scelto la via della solitudine, vivendo da solo in una casa di legno tra le montagne e dedicando la sua vita alla protezione della fauna selvatica dai bracconieri che infestano le foreste.

Diciamocelo subito: non cercate in The Hunted un film della complessità introspettiva o della raffinatezza narrativa di “Apocalypse Now” o de “Il cacciatore”. L’intreccio è molto più semplice, i personaggi non sono caratterizzati così dettagliatamente come il famigerato colonnello Kurtz o il tormentato capitano Willard, né tantomeno il film ci porterà a porci delle particolari domande su noi stessi. Si mantiene sempre la distanza da questa storia, non ci si immedesima più di tanto nei personaggi.
Firedkin però è maestro di una cosa: esplorare “il grigio”. Il concetto di “bianco e nero” è completamente assente nel suo cinema. E The Hunted non fa eccezione. Qui non siamo nel western classico americano, siamo lontanissimi da quel mondo. Non c’è un Gary Cooper per cui fare il tifo, in attesa del treno di mezzogiorno che promette morte e distruzione. Qui siamo nel mondo dei noir di William Friedkin, il signore dell’oscurità dell’anima. Siamo nel mondo de “Il braccio violento nella legge, di “Vivere e morire a Los Angeles”, di “Cruising” nel mondo di quello che sarebbe poi stato “Killer Joe”. Se siete in cerca di eroi, cambiate strada perché in The Hunted non ne troverete.

the hunted

Il vecchio L.T. Bohnam non agisce per senso del dovere, o per il bene della comunità. Agisce, in maniera se vogliamo egoistica, per colmare un proprio, personale, senso di colpa.
Per Hallam, L.T. rappresenta il padre che non ha avuto mai, colui che gli ha insegnato tutto quello che conosce, che gli ha fornito gli strumenti e le abilità con cui si è fatto strada nella vita. Dopo il ritorno dal Kosovo gli ha scritto tante lettere in cui confessava il suo disagio, in cui gli diceva di avvertire il peggioramento della sua psiche. Di essere vicino al crollo.
Bohnam però le aveva sempre ignorate, fatto finta che non esistesse un mondo esterno. Il suo otium immerso nella natura aveva la precedenza su tutto, anche su un pericolo che lui stesso aveva contribuito a creare. Quando poi, inevitabilmente, la vita aveva bussato alla sua porta per presentargli il conto, si era ritrovato a dover pagare un conto più salato di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Dovrà combattere contro “suo figlio”, in uno scontro che ha un sentore di primitivo, una lotta tra due guerrieri in cui lo Stato, la società, la legge, non hanno alcun posto. In The hunted la scelta del coltello come unica arma per la contesa non è per nulla casuale: questo duello ha una matrice ancestrale, insita nella natura stessa dell’uomo. È un duello tra il padre e il figlio che si protrae dalla notte dei tempi (bellissima la citazione ad Abramo), che qui si materializza nella sua forma più estrema e crudele: l’omicidio.

Una menzione particolare va proprio ai combattimenti col coltello: sono i più belli e realistici che potrete mai vedere. Siamo lontanissimi dall’enfasi dei combattimenti corpo a corpo dei film asiatici. Non durano così tanto, non sono così veloci, le coreografie non sono fatte di movimenti così plateali. I due attori (e i tanti stuntman) sono stati addestrati da veri istruttori delle forze speciali e maestri di Kali-Escrima (l’arte marziale filippina che prevede la lotta con coltelli e bastoni).

Sapere che, ad oggi, William Friedkin è uno di quei registi che ad Hollywood non riescono a trovare fondi perché “poco commerciali” fa davvero male. Anche se è ormai anziano, speriamo che presto potremmo rivedere questo signore delle tenebre risplendere del suo oscuro bagliore.

Domenico Vitale