Teoria del piacere nello Zibaldone di Leopardi

Il piacere era l’assillo di Giacomo Leopardi. Vediamo le riflessioni su questa perenne ricerca dell’uomo tra gli appunti dello Zibaldone, con la sua teoria del piacere.

piacere

Giacomo Leopardi (1798-1837) costituisce senz’ombra di dubbio un riferimento imprescindibile nella tradizione letteraria italiana. Il poeta marchigiano si presenta a noi con una vita quasi priva di grandi avvenimenti esterni e tutta tormentosamente rivissuta interiormente, di cui è acquisita anche la sua dimensione filosofica.

I suoi pensieri sono raccolti nello Zibaldone, una miriade di appunti sistemati e pubblicati in sette volumi tra il 1898 e il 1900 grazie ad una commissione di studiosi presieduta da Giosuè Carducci con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura.

Quest’opera raccoglie un’immensa quantità di appunti che il poeta di Recanati scrisse tra il Luglio 1817 e il Dicembre 1832 su fogli singoli e che ammontano, al culmine, ad oltre quattromila pagine di testi in fogli separati e numerati progressivamente.

Lo Zibaldone è: diario, raccolta di appunti filologici e linguistici, di passi letterari e filosofici, di riflessioni autobiografiche e socio-antropologiche, serbatoio di temi e concetti per le opere creative, ma al contempo “opera” autonoma che noi oggi possiamo leggere come testimonianza dei più diversi modi di scrittura (dall’aforisma a veri e propri trattatelli) e della straordinaria forza del pensiero asistematico, in continuo divenire, di Leopardi.

Gli studiosi hanno ravvisato nel pensiero e nella poetica leopardiana un fondamentale pessimismo che sono soliti dividere in tre fasi. Ma il poeta dell’infinito era impegnato alla ricerca della felicità umana, individuale e collettiva e convoglia le sue meditazioni sulla felicità entro la formula “disciplinare” teoria del piacere, anche se in realtà non si tratta di una vera e propria “teoria”, se pensiamo a quel tanto di sistematico e di progettante che possiede ogni teoria.

Il discorso sulla felicità è osservato come luogo della contraddizione più radicale: le analisi della “felicità” si intrecciano con quelle del “piacere”, identificandosi spesso con esse fino a sovrapporsi. Tuttavia mentre quelle riguardano il “fine” dell’uomo, queste attengono al rapporto col desiderio, e si muovono lungo la ricerca di una sorta di “etica della vita quotidiana”.

La teoria del piacere

Giacomo Leopardi identifica la felicità propriamente col piacere, lo dice chiaramente nello Zibaldone:

“L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere.”

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Leopardi in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria e delle descrizioni fisiche; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e realistico dei ritratti di Leopardi verso la fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto

Leopardi era consapevole che tutti noi siamo sempre alla ricerca del piacere in ogni modo possibile e in ogni manifestazione della nostra esistenza e che, inoltre, il piacere da noi così strenuamente cercato ha sempre a che fare con l’impossibile. Infatti nel desiderare questo o quello, in realtà tutti noi desideriamo sempre e solamente qualcosa che non è mai né questo né quello.

Insomma, secondo la teoria del piacere leopardiana, noi vogliamo “Il” piacere, non un piacere. Il poeta di Recanati lo dice con massima chiarezza nelle pagine dello Zibaldone: che il desiderio del piacere non ha davvero alcun limite.

Trattandosi, infatti, di una tensione “congenita coll’esistenza, […] non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. Perciò la nostra è una natura che porta con sé materialmente linfinità, perché se un piacere è circoscritto, non è il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che si desidera illimitata. Perciò, secondo la teoria del piacere, anche il piacere che possiamo attingere non appagherà né acquieterà mai il “desiderio” da cui ci ritroviamo originariamente mossi.

Lo sguardo di Leopardi si pone proprio sullo scarto permanente tra desiderio e piacere determinato, sull’impossibilità di colmare questo vuoto che è il desiderio. L’impossibilità di circoscrivere il piacere in durata e in estensione, l’impossibilità di riempire con un piacere determinato la domanda del desiderio, fa permanere uno “stato di desiderio”: si tratta di una condizione vuota che si può spiegare solo col fatto che proprio quell’esperienza che potrebbe colmare il desiderio, l’esperienza dell’infinito, è materialmente impossibile.

Dunque, secondo la teoria del piacere, la pena dell’uomo, nel provare un piacere, è di veder subito i limiti della sua estensione.

Trattandosi di un uomo che vede la realtà e non può fare affidamento sulla straordinaria potenza delle illusioni rese possibili in senso proprio solo dall’immaginazione, l’unica a render possibile la varietà, una vera e propria proliferazione di immagini, uniche capaci di lenire il dolore per un fallimento che Leopardi considera rigorosamente destinale.

In questo amaro gioco, l’immaginazione agisce su due piani: da una parte offre al desiderio immagini di piaceri impossibili, e dunque semina di obiettivi irraggiungibili i percorsi del desiderio, dall’altra supplisce alla drammatica esperienza dello scarto, proponendosi come facile e compensatoria oasi, dove è possibile rendere pieno il desiderio:

“Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà si trova così nell’immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec.”

Ciò che in realtà vogliamo è solo un’illusione, che per definizione si annuncia come il non-esistente, ma che tutta via esiste e che cioè, smentisce di essere quel che sembrerebbe volerci far credere di essere. Proprio per questo va trattato come un sogno, un’illusione sì vivificante, ma pur sempre irrimediabilmente ingannevole.

Un piacere, dunque, radicalmente paradossale perché cercato incessantemente nonostante si sappia benissimo che mai lo si potrà raggiungere. Infatti Leopardi stesso ammette chiaramente che “l’immaginazione non può regnare senza l’ignoranza”. Per il recanatese dovremmo riconoscere che siamo tutti macchine incapaci di sopportare qualsivoglia limite o vincolo destinato a depotenziare quella che è di fatto la nostra infinita possibilità di godimento.

Il desiderio, infatti, si ricostituisce all’infinito rinascendo ogni volta, come prima, spingendoci al guadagno di una impossibile infinità in atto.

Maurizio Marchese

Bibliografia

M. Donà, Misterio grande-Filosofia di Giacomo Leopardi, Milano, Bompiani, 2013.

A. Prete, Il pensiero poetante-saggio su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1980