Joseph Roth, metà ebreo e metà austriaco

Senza ombra di dubbio Joseph Roth (1894 – 1939) è tra i più grandi narratori di uno degli imperi più importanti della storia mondiale, quello degli Asburgo. Sono diverse le caratteristiche di questo scrittore e giornalista, nato alla periferia dell’impero austroungarico, in una città dell’attuale Polonia, che affascinano e conquistano. Nei suoi testi, Joseph Roth appare come un uomo diviso tra il desiderio di un’Austria utopica nel momento in cui la sua storica famiglia reale e la sua grande storia appartengono ormai al passato, e la consapevolezza di essere un ebreo, destinato dunque a vagare e a non avere mai una meta fissa proprio come i suoi antenati. È forse questo gioco di chiaroscuro a caratterizzare la scrittura di Joseph Roth che, più di tanti altri, sarà capace di narrare gli ultimi grandi fasti di un impero ormai decaduto.

Cronaca di un impero…

Joseph Roth
Joseph Roth

Joseph Roth nutre nei confronti della dinastia che ha reso grande per secoli il suo paese quasi il dovere di onorarla. Questo si evince, ad esempio, dal suo romanzo La cripta dei Cappuccini (1938). Il titolo è tratto dal luogo dove riposano le ossa dei regnanti austriaci, un luogo di pellegrinaggio per il protagonista del romanzo che, dopo aver perso tutte le sue certezze (la madre muore, la moglie lo abbandona con il figlio, il patrimonio è dilapidato), può soltanto aver fede nell’Impero:

La Cripta dei Cappuccini, dove riposavano i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi in pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e mi chiese: «Cosa desidera?» «Voglio visitare la tomba del mio Kaiser Francesco Giuseppe», risposi io. «Dio la benedica!», disse il frate e mi fece il segno della croce.

… e del suo imperatore

Joseph Roth
L’imperatore austriaco Francesco Giuseppe

La cronaca elegiaca dell’età di Francesco Giuseppe, in realtà, precede di molti anni La Cripta dei Cappuccini con il romanzo La marcia di Radetzky (1932). Il protagonista è un giovane aristocratico austriaco il cui nome, Trotta, fa pericolosamente pensare a “Trottel” (“imbecille”). Radetzkymarsch – così il titolo in tedesco – conferisce un senso quasi mitico alla figura dell’imperatore. Roth ci narra subito come fu fabbricato il mito di un Francesco Giuseppe che a Solferino avrebbe dimostrato un ardore quasi da suicida; ma l’imperatore diventa poi veramente un mito, il mito dell’immutabilità dell’ordine austriaco, che negli ultimi anni del suo regno esisteva ancora soltanto perché egli stesso era ancora vivo. Ma, come già accennato prima, Roth fu anche cronista e poeta delle tragiche peregrinazioni degli ebrei dell’Europa centro-orientale.

Joseph Roth: un realista poeta

Nonostante quella che potremmo definire l’ambivalenza di Joseph Roth, quest’ultimo afferma – con precisione nel suo romanzo Giobbe (1930) – che: «Non ho né inventato né composto nulla. Non si tratta, oramai, di “poetare”. La cosa più importante è ciò che si è osservato». Lo scrittore, dunque, nei suoi romanzi e racconti non dà libero sfogo alla fantasia, ma riporta, attraverso la lente del realismo, quello che è il sentimento dell’epoca e la situazione di tante famiglie ebree destinate ad una «fuga senza fine». Il realismo di Roth non ha mai nulla della secchezza di altri neorealisti. In lui persiste un linguaggio poetico che purifica come per incanto la realtà di tutte le sue scorie. Questo spirito è specificamente austriaco ed anche viennese.

La consapevolezza di essere viennese ed ebreo…

L’unicità di Roth consiste nel fatto che egli è compiutamente austriaco e compiutamente ebreo ad un tempo come nessun altro scrittore di lingua tedesca. Suo riflesso sono molti dei suoi eroi stabilitisi nel distretto ebraico della Leopoldstadt che diventano subito viennesi e quindi “occidentali”, pur restando sempre in tutto fedeli alle loro origini. Di qui la particolare ed assai complessa sagacità di Roth e la visuale amplissima di molti suoi eroi: è la visuale dell’aristocratico austriaco che è di casa in tutte le capitali aristocratiche dell’Europa, ma anche quella dell’ebreo che ha percorso e dovrà ripercorrere ancora tutte le vie fra l’Occidente e l’Oriente.

… in Fuga senza fine

Il protagonista del romanzo Die Flucht ohne Ende (Fuga senza fine, 1927) non è, come il titolo dovrebbe far supporre, un ebreo tipico o, comunque, «integrale»; è un tenente austriaco che è ebreo soltanto di madre e che dopo il 1918 si vede condannato ad una peregrinazione senza fine, non perché ebreo, ma perché austriaco. Il tenente partecipa per qualche tempo con entusiasmo alla rivoluzione russa, ma non può dimenticare la sua convenzionalissima fidanzata viennese; ritorna nell’Europa del benessere, ritorna a Parigi, capitale di questo benessere e vi ritrova, completamente cambiati, la fidanzata e il mondo intero.

Uno scrittore per tutti

Roth è un narratore il cui principale merito è l’aver deciso di «scrivere per tutti» pur nella sua doppia condizione di ebreo errante e di austriaco senza patria; e scrivere per tutti significa spiegare la condizione umana sua e dei suoi pari, ma anche di tutta l’umanità del primo dopoguerra o anche degli anni precedenti la prima guerra mondiale. I limiti del realismo di Roth derivano dal suo irremovibile conservatorismo austriaco o austro-ebraico. Resta il fatto che egli ha saputo diventare, pur conservando sempre un notevole livello letterario, veramente uno «scrittore per tutti», che da tutti si fa leggere, perché sa trasformare il racconto in un’informazione molto precisa e concreta e soprattutto in un colloquio con il suo lettore.

Pia C. Lombardi

Bibliografia

J. Roth, I grandi romanzi, Newton Compton Editori, 2012