Shakespeare, Donne e Thomas a confronto con la morte

Il tema della morte è certamente uno dei più comuni del discorso poetico. Fin dall’antichità, poeti e filosofi si sono interrogati sul significato della morte, mostrando sconcerto e impotenza innanzi al limite invalicabile della vita umana. Ci sono, tuttavia, autori che hanno tentato di mostrare la debolezza della morte sia nel confronto tra arte e vita, sia nella credenza di una vita ultraterrena che oltrepassa i confini materiali. Tre gli autori e i componimenti presi qui in considerazione per tentare un paragone poetico tra i diversi confronti e scontri con la morte. Shakespeare, Donne e Thomas, pur se vissuti in epoche diverse, hanno ugualmente tentato di depotenziare la morte nelle loro rappresentazioni poetiche.

Il sonetto 146 di Shakespeare

Poor soul, the centre of my sinful earth,
[Why feed’st] these rebel powers that thee array?
Why dost thou pine within, and suffer dearth,
Painting thy outward walls so costly gay?
Why so large cost, having so short a lease,
Dost thou upon thy fading mansion spend?
Shall worms, inheritors of this excess,
Eat up thy charge? is this thy body’s end? [1]

(Shakespeare, Sonnet 146, vv. 1-8)

In questo componimento il poeta, rivolgendosi direttamente alla sua anima, riflette sull’importanza del nutrimento interiore a discapito dell’abbellimento esteriore del corpo. La lirica di Shakespeare, seppure formalmente adotti la struttura del sonetto inglese composto da tre quartine e un distico finale, segue l’andamento tematico di quello petrarchesco composto da due quartine e due terzine. La si può così distinguere in due diverse sequenze. Nella prima parte la voce poetica esprime il rifiuto dell’estrema importanza conferita al corpo, considerato una guaina e uno schiavo dell’anima. Il suo destino è di inevitabile decadenza: saranno i vermi, alla fine, a consumare del tutto una carcassa di carne putrefatta.

Then soul, live thou upon thy servant’s loss,
And let that pine to aggravate thy store;
Buy terms divine in selling hours of dross;
Within be fed, without be rich no more:
So shalt thou feed on Death, that feeds on men,
And, Death once dead, there’s no more dying then. [2]

(Shakespeare, Sonnet 146, vv. 9-14)

Nella seconda parte, invece, il poeta esorta la sua anima a disinteressarsi degli affanni del corpo e a occuparsi della propria ricchezza interiore. Solo così la Morte sbiadisce dinanzi alla grandezza della vita e dell’uomo.

Corpo e anima

La morte è dunque per Shakespeare solo corporea. L’anima, se curata, alimentata, potrà sfuggire al rischio della distruzione. Qui il confronto con la morte non si articola nei termini di un conflitto diretto come in Donne, ma si inserisce nel tentativo di asserire il trionfo di una spiritualità umana sulla soglia distruttiva imposta dal tempo. Nei primi componimenti del suo canzoniere, infatti, Shakespeare aveva anche tentato con insistenza di esaltare la funzione eternatrice dell’arte contrapposta alla caducità della vita e della giovinezza.

Il sonetto X di Donne

John Donne affronta il tema della morte nel decimo componimento della raccolta poetica degli Holy Sonnets, una silloge di sonetti pubblicata per la prima volta nel 1633. Il paragone con il sonetto di Shakespeare è decisamente plausibile. Anche Donne, infatti, mette in scena il paradosso della morte della Morte, tratteggiata quale inferiore all’uomo. La poesia, in cui manca un chiaro soggetto poetico, si rivolge direttamente alla Morte assumendo così la forma di un monologo drammatico. C’è una chiara insistenza sull’interlocutore, attestata dalla massiccia presenza di pronomi e aggettivi di seconda persona singolare (thou, thee, thy). Il confronto assume i toni di una sfida che quasi sbeffeggia la Morte.

La sfida alla Morte

Death, be not proud, though some have called thee
Mighty and dreadful, for thou art not so;
For those whom thou think’st thou dost overthrow
Die not, poor Death, nor yet canst thou kill me.
From rest and sleep, which but thy pictures be,
Much pleasure; then from thee much more must flow,
And soonest our best men with thee do go,
Rest of their bones, and soul’s delivery. [3]

(John Donne, Sonnet X, vv. 1-8)

Nelle prime due quartine Donne depotenzia immediatamente la Morte, affermando che non è potente e terribile come spesso l’hanno definita. Essa è invece paragonabile al riposo e al sonno, in cui si trova piacere e riposo; per tale motivo, è dunque inutile temere la Morte, che donerà piuttosto un ristoro eterno all’uomo. Nella terza quartina, estremamente coesa per la presenza del polisindeto e dell’enumerazione, emerge la condizione di vittima della Morte: schiava del fato, del caso, di re e di disperati, non può per alcuna ragione inorgoglirsi. Il distico finale porta a compimento il discorso paradossale del sonetto: mentre l’uomo si risveglierà per l’eternità, la Morte morirà. Da notare è il gioco di parole tramite la figura etimologica di death e die.

One short sleep past, we wake eternally
And death shall be no more; Death, thou shalt die. [4]

(John Donne, Sonnet X, 13-14)

La morte secondo Dylan Thomas

Dylan Thomas è un poeta gallese del primo Novecento, la cui poesia è vicina alla stagione modernista del montaggio e al modello visionario di William Blake. And death shall have no dominion è uno dei suoi componimenti più famosi. Scritta nel 1933, riprende il discorso paradossale sulla morte di Shakespeare e Donne con una sensibilità decisamente contemporanea. La morte viene depotenziata già dal modo in cui Thomas la designa: la parola death comincia infatti con la lettera minuscola, a differenza della maiuscola che compariva in Shakespeare e Donne. Una serie di proposizioni concessive che introducono immagini fortemente visionarie svolgono la logica paradossale che rivaluta la morte. Lo scenario quasi apocalittico si presenta con un ritmo pacato e disteso, e la morte sembra avere il potere di ridare nuova vita.

Il ciclo della natura

And death shall have no dominion.
Under the windings of the sea
They lying long shall not die windily;
Twisting on racks when sinews give way,
Strapped to a wheel, yet they shall not break;
Faith in their hands shall snap in two,
And the unicorn evils run them through;
Split all ends up they shan’t crack;
And death shall have no dominion. [5]

(Dylan Thomas, And death shall have no dominion, vv. 10-18)

La concezione della morte di Dylan Thomas si inserisce nella sua concezione organicistica della vita e della natura. Nel ciclo incessante della natura, la morte è un passaggio sì fondamentale ma uguale agli altri. La morte non ha il potere di porre una cesura definitiva poiché il ciclo della natura continua senza sosta, integrandola in sé e non lasciandosi sospendere dal momento della morte.

Salvatore Cammisa

Fonti

Shakespeare, Sonetti, Oscar Mondadori, Milano, 1993

John Donne, Poesie, BUR, Milano, 2007

Dylan Thomas, Poesie, Corriere della sera, 2004

Traduzioni

[1] Pover anima, centro della mia argilla peccatrice, / assediata da forze ribelli che ti racchiudono, / perché ti struggi dentro e soffri privazioni / mentre dipingi le tue mura esterne con sfarzo dispendioso? / Perché una simile spesa per un affitto a così breve termine, / per sostenere una casa che cade in rovina? / Dovranno essere i vermi eredi dello spreco a divorare la tua proprietà? Sarà questo lo scopo del tuo corpo?

[2] Allora, anima mia, vivi sullo sfacelo del tuo servo, / lascia che si consumi per aumentare  i tuoi possedimenti; / firma contratti eterni vendendo ore di scarti; / nùtriti interiormente, non ostentare una ricchezza esterna. / Ti nutrirai della Morte, che si ciba d’uomini; / così, morta la Morte, non c’è più il morire.

[3] Morte, non essere superba, per se t’hanno chiamata / possente e terribile, perché tu non lo sei, / perché quelli che tu credi travolgere / non muoiono, povera morte, né tu puoi uccidere me; / dal riposo e dal sonno, che non sono che ritratti di te, / scorre grande piacere, quindi da te maggiore ne scorrerà, / e per primi i migliori tra noi se ne vanno con te, riposo delle loro ossa e liberazione dell’anima.

[4] Passato un breve sonno, noi ci destiamo in eterno, / e morte non sarà più; Morte, tu morirai.

[5] E morte non avrà più dominio. / Sotto i gorghi del mare / coloro che a lungo saranno giaciuti non moriranno nel vento; / torcendosi ai tormenti, quando i tendini cedono, / legati a una ruota non si spezzeranno; / la fede nelle loro mani sarà troncata in due, / e i mali unicorni li trapasseranno; / ritorti da ogni lato non saranno schiantati; / e morte non avrà più dominio.