L’Archivio di Stato di Napoli: tra memoria e formazione

L’Archivio di Stato di Napoli

Nel cuore del centro storico Napoli ospita un’istituzione che tutt’oggi ricopre un ruolo fondamentale nell’ambito culturale, e non solo, della città; stiamo parlando dell’ Archivio di Stato di Napoli che grazie agli innumerevoli fondi documentali allocati nei suoi locali, custodisce senza alcun dubbio la memoria storica della cittadina partenopea. Esso è anche sede della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica per l’insegnamento delle tecniche archivistiche e della lettura degli antichi documenti.
La sede principale dell’Archivio di Stato di Napoli affaccia su via del Grande Archivio ed ha sede nel grande complesso monumentale dei Santi Severino e Sossio, addossato proprio alla bellissima chiesa omonima, costituendone il monastero benedettino attivo sino al XIX secolo. Le origini di questo luogo risalgono tra il 902 e il 904 quando qui furono portate, in un oratorio preesistente fondato dagli stessi frati benedettini, le reliquie dei santi.

La nascita

Già nel 1808, con un decreto appositamente varato, Gioacchino Murat diede avvio alla creazione in questo luogo di un primo Archivio Generale del Regno, dove furono riuniti gli antichi documenti delle istituzioni sino ad allora esistenti; con l’avvento dei Borbone, pochi anni più tardi, l’istituzione fu mantenuta ma con delle significative modifiche, a partire dalla denominazione che mutò in Grande Archivio del Regno. Nell’ambito del rinnovamento che introdussero i nuovi regnanti, esso divenne la vera e proprio memoria storica partenopea, custodendo anche i più antichi, appartenenti alle strutture amministrative e legislative sino allora esistite e facenti capo alla città.

La storia

Nel corso dei secoli l’antico monastero ha subito notevoli cambiamenti sino ad arrivare ad essere quello che nel XIX secolo ha iniziato ad ospitare l’istituzione; i frati benedettini si insediarono in questa zona della città già nel X secolo con la fondazione di un piccolo sacello ed in seguito, con l’arrivo delle reliquie di san Severino e poco più tardi di san Sossio, iniziò l’ampliamento che portò alla costruzione della grandiosa chiesa tra il XV ed il XVII secolo. Il monastero, nato già molto prima della chiesa, arrivò a crescere e ad inglobare diversi terreni circostanti sino a raggiungere l’attuale estensione intorno al ’700; la storia dei benedettini però si interruppe nel 1799 durante i fatti della Rivoluzione napoletana quando essi furono cacciati dal complesso in cui per un breve periodo si insediò l’Accademia della Marina. Infine, decaduto l’esilio, i frati ritornarono ad occupare l’edificio sino alla definitiva soppressione dell’ordine avvenuta negli anni dell’Unità d’Italia.

L’edificio si divide su più livelli, circa quattro, seguendo l’andamento altalenante del centro storico della città, cosicché visitandolo ci si trova dinanzi una struttura fittamente articolata; difatti, come ogni la maggior parte dei complessi conventuali anche quello dei SS. Severino e Sossio presenta imponenti chiostri nella sua architettura ed esso ne conta tre di rilevante grandezza e bellezza.

I Chiostri

Il più imponente di essi si trova al primo piano ed è denominato Chiostro di Marmo per la sua principale peculiarità costituita dal materiale bianco di Carrara che lo costituisce in gran parte; costruito nel XVI secolo durante uno degli ampliamenti del convento, il chiostro ospita lungo tutti e quattro i bracci antichi ambienti benedettini, come il Refettorio e la Sala capitolare ora destinati agli usi dell’Archivio.

È proprio l’antica mensa, affacciata sulle colonne marmoree di quest’atrio, che nei secoli è divenuta uno dei gioielli del complesso, diventando la sala Filangieri. Dedicata a Riccardo Filangieri di Candida, direttore dell’ Archivio di Stato di Napoli dal 1934 al 1956, essa conserva negli imponenti scaffali lignei addossati alle pareti, gli atti delle Cancellerie del Regno di Napoli dal XVI al XIX e gli originali degli atti legislativi e di governo fino all’Unità; la parete di fondo, invece, ospita un grande affresco di Belisario Corenzio raffigurante la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Chiostro del Platano

Poco appresso la grande sala si accede al quattrocentesco Chiostro del Platano (modificato nell’Ottocento), chiamato così per la presenza di un platano che pare fosse stato piantato da San Benedetto (quello che si può ammirare è nato dal precedente esemplare abbattuto nel 1953 perché malato). Sui due lati del portico Antonio Solario, detto lo Zingarello, pittore di scuola veneta, realizzò tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento un ciclo di affreschi raffiguranti la vita di San Benedetto. Esempio notevole di pittura rinascimentale a Napoli, questo ciclo di pitture si caratterizza per ricchezza di particolari architettonici e naturalistici.

All’ultimo piano, all’interno delle antiche celle monastiche, si trova la Biblioteca (risalente alla prima metà dell’800) ornata da ritratti a chiaroscuro realizzati da Giovanni Cammarano (1845) raffiguranti celebri storici, eruditi e scrittori; contiene, inoltre, più di 26.000 volumi e circa 1.000 periodici raccolti in ventuno scaffali in legno, che vanno dal ‘400 al ‘700.

Gaetano Filangieri

Gaetano Filangieri

La direzione di Gaetano Filangieri (1934-1956) coincise purtroppo con il periodo più triste per la storia del nostro paese e dei suoi archivi; delle vicende belliche l’ Archivio di Stato di Napoli risentì pesantemente in quanto una notevolissima mole di scritture antiche e pregevoli, rifugiate presso un deposito nei pressi di Nola per preservarle dai bombardamenti, furono distrutte nel settembre del 1943 da un reparto tedesco in ritirata.

Andarono distrutti così tutti i 378 volumi in pergamena contenenti i Registri delle Cancellerie angioina e aragonese (che coprivano un vastissimo intervallo temporale, dal 1265 al 1505) e l’unico registro superstite (1239-1240) della cancelleria imperiale di Federico II.

Carta lapidaria

Tra le tante preziosità storiche l’ Archivio di Stato di Napoli conserva due documenti degni di nota; il primo è trova la Carta lapidaria, un antico istrumento ritrovato a Cuma, considerato il più antico documento qui conservato e risalente all’VIII secolo; scritto in latino, essa è incisa su ambedue le facce di una lastra di marmo.

Il secondo è il prezioso Codice della Confraternita di Santa Marta realizzato nel 1600 rilegando fogli di pergamena su cui erano miniati gli stemmi degli illustri membri della Confraternita, dagli ultimi sovrani angioini a quelli aragonesi, dai viceré spagnoli ai rappresentanti delle principali famiglie del Regno.

Liberato Schettino