Fortunata, ovvero: perché il cinema italiano è morto

La stagione estiva concede, come è sempre stato, qualche mese di pausa alla stagione cinematografica. La drastica riduzione delle uscite in sala permette agli addetti ai lavori (e non solo) di fermarsi un attimo a riflettere su quanto abbiamo visto nelle sale durante la prima metà dell’anno. Fortunata

Il cast a Cannes

Oggi puntiamo i riflettori su “Fortunata”, film di Sergio Castellitto, particolarmente pubblicizzato, acclamato da molti critici, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione di Jasmine Trinca, prodotto dalla Indigo Film e distribuito (nientemeno che) dalla Universal. È la storia di una giovane mamma separata (Fortunata, per l’appunto), parrucchiera a domicilio bellissima e dal carattere deciso, che affronta tutte le avversità della vita con maestosa fierezza e che coltiva da tempo il sogno di aprire un’attività in proprio. Fortunata ha una figlia piccola che soffre di evidenti disturbi della personalità, dovuti alla condizione di degrado in cui è costretta a vivere, fatta di un padre violento ed alcolizzato (che picchia la madre e, di tanto in tanto, la obbliga a soddisfare i suoi desideri sessuali), di difficoltà a fare amicizie e di una madre che, pur lottando come una leonessa per garantirgli il meglio, non riesce ovviamente a sostituirsi  anche alla figura paterna. Il tutto è condito dalle difficoltà che riserva il periferico e multietnico quartiere romano di Torpignattara. Fortunata cercherà l’amore in un giovane psicologo genovese trapiantato a Roma, tentando così di sfuggire per sempre dalle angherie dell’ex marito e aiutando un suo amico di infanzia (il parrucchiere borderline Chicano) a realizzarsi nella vita.

Una foto dal set

Diciamo fin da subito che, per quanto si cerchi di essere benevoli coi film nostrani, “Fortunata” si presenta come un film totalmente insoddisfacente. In tutto. Partiamo con la principale responsabile di questo ennesimo fallimento per il nostro cinema: Margaret Mazzantini. La scrittrice, moglie di Sergio Castellitto, è l’autrice della delirante sceneggiatura di questo film, mal scritta, zeppa di buchi di trama e che denuncia chiaramente una non conoscenza dei temi e degli ambienti trattati. I personaggi sembrano semplicemente abbozzati, mai definiti. La Roma di borgata, quella lontana in tutto dalle stupende strade lastricate del centro storico e dei Parioli, viene raccontata da questa autrice che sembra non essersi mai spinta oltre il pianerottolo di casa sua. Una visione fortemente altoborghese del mondo, cieca davanti a tutti gli aspetti della vita che non combacino con quelli dell’alta società in cui è cresciuta la Mazzantini, è ovviamente inadeguata per raccontare la vita quotidiana di chi fatica a mettere il piatto in tavola. I dialoghi, banali e mai interessanti, trasudano di frasi improbabili (“Il teatro è il teatro, ma la fregna è un’altra cosa“) e perbenismo imbarazzante (da brividi la frase del carabiniere: “Signora noi non sappiamo se sia omicidio o eutanasia come dice lei, questa non è la sede adatta per stabilirlo. Posso solo dirle che la vita è sacra“), che si protrae per tutto il film senza mai lasciare spazio alla speranza di un possibile colpo di scena che possa raddrizzare la storia. Lo psicologo, così ligio al dovere e dall’etica d’acciaio, abbandona la bambina senza remore dopo aver scambiato due parole con la madre, come se d’un tratto si fosse trasformato in un Mr. Hyde di se stesso. Manca completamente l’arco di trasformazione di tutti i personaggi. Ognuno di loro agisce semplicemente perché l’autrice in quel momento ha voluto che agissero in quel modo, senza che le azioni siano sorrette da evoluzioni della personalità dei protagonisti. L’emblema di tutto questo è il personaggio di Chicano, collega ed amico d’infanzia della protagonista, tossicodipendente e bipolare, costretto ad accudire una madre, ex grande attrice del teatro tedesco (???), corrosa dall’Alzheimer. Sembra quasi che la bipolarità di Chicano venga utilizzata come scusa per giustificare la totale incoerenza delle sue azioni. Ogni conflitto interno a questo personaggio nel film viene aperto ma mai esaurito, facendo sempre sprofondare lo spettatore nel lapidario “e quindi?“, la morte di ogni regista o sceneggiatore. Chiudiamo con una lapide tombale il discorso sceneggiatura sottolineando il forzatissimo paragone tra Fortunata e la tragedia greca dell’Antigone, come se la cosa conferisse automaticamente maggior dignità all’opera di Castellitto. Giusto per rimanere in tema di letteratura greca possiamo affermare senza remore che la bruttezza della sceneggiatura della Mazzantini pesa su “Fortunata” come il mondo, sorretto dalle possenti spalle del titano Atlante (che in questo caso dovranno essere sostituite dalla pazienza dello spettatore).

La brutta sceneggiatura è ovviamente coadiuvata dalla regia di Sergio Castellitto, che in realtà prova in tutti i modi a rendere migliore il film, non riuscendo però nell’impresa. La sua tecnica registica in realtà appare anche buona, ma qui sbaglia totalmente registro. Gli attori (di cui in seguito parleremo brevemente) sono mal diretti, il film è sempre urlato, con i personaggi che non fanno che sbraitare, piagnucolare e aggredirsi a vicenda. La fotografia è terribile, patinatissima, come quella di una telenovela americana. Buone inquadrature si alternano con scelte di regia quantomeno discutibili, come le brutte sequenze di ballo di piazza delle bambine cinesi. Inquietante poi anche il messaggio che il film lancia proprio per quanto riguarda la comunità cinese, descritta, pur sempre in maniera melensa, come parassitaria e disonesta (l’usuraia cinese che rileva il salone). Senza contare poi gli stereotipi sulla stessa comunità, come il salone da parrucchiera cinese, in cui troneggia un ritratto di Mao Tse Tung. Quantomeno discutibile poi la scelta di mostrare continuamente le grazie della protagonista. Per quanto non si possano non apprezzare le grazie di Jasmine Trinca, qui resa forse ancora più bella dal suo aspetto di donna vissuta, c’è però da dire che lo spettatore comincerà a trovare quasi subito forzata la scelta di mostrarla seminuda o nuda ogni dieci minuti. Dopo un po’ soggiunge il dubbio che la storia sia ambientata d’estate solo per giustificare i pochi centimetri di stoffa sul corpo della protagonista.

fortunata
Jasmine Trinca in una scena del film

Doverosa poi una breve digressione sulla recitazione. Jasmine Trinca, premiata al festival di Cannes quest’anno per l’interpretazione, mette anima e corpo per tentare di rendere la sua Fortunata degna della grande tradizione delle “femmine” del cinema italiano, come Anna Magnani, Monica Vitti e Mariangela Melato. L’impegno però non riesce a compensare la bruttezza dei dialoghi e una interpretazione alla fine “fuori parte”. Lo spettatore più attento non potrà non notare una Jasmine Trinca un po’ impacciata nel vestire i (succinti) panni della borgatara, lei sempre così squisitamente sofisticata. Il migliore è Eduardo Pesce, credibilissimo nel ruolo dell’ex marito violento, ruolo che gli permette di affermare sempre più la sua bravura come attore caratterista. Menzione speciale, ma in negativo, per Stefano Accorsi, l’emblema stesso della bruttezza di questo film. Il suo viscido personaggio, il più carente a livello di caratterizzazione, non fa che strillare e piagnucolare per un’ora e mezza, inframezzando le sue crisi isteriche (demenziale la scena del “Codice deontologico” sul lungo Tevere), con qualche melensa espressione da giovincello innamorato o con qualche grottesco balletto.

Il quadro delineato è quindi disastroso. Quindi, “Fortunata” va visto o no? La risposta è: sì. Va visto perché deve essere chiaro a tutti coloro a cui questo cinema italiano non piace cosa c’è che non va. Perché in Europa il cinema nostrano non vende? Che problemi hanno le nostre sceneggiature? A chi sono destinati i fondi del MIBACT per il cinema? Quali registi ne usufruiscono maggiormente? Se non fosse stato per il premio a Cannes conferito a questo film, “Fortunata” sarebbe passato completamente inosservato. Il nostro cinema è pieno zeppo di giovani e bravi autori che provano ad emergere e che, purtroppo, non vedono finanziate le proprie opere a vantaggio di film come questo, che incassano pochissimo, non sono vendibili all’estero e non fanno che portare cattiva pubblicità alla settima arte nel nostro paese.

Domenico Vitale