Shakespeare e il suo Globe Theatre al Bellini

Il teatro Bellini di Napoli si presta ad una riproduzione del Globe Theatre di Shakespeare in occasione del Napoli Teatro Festival 2017

L’edizione del Napoli Teatro Festival 2017, diretto da Ruggero Cappuccio, ha proposto la simpatica iniziativa di rievocare il teatro elisabettiano di Shakespeare: il Globe Theatre viene riadattato alla meglio delle possibilità strutturali del Teatro Bellini di Napoli. L’evento, in scena il 6, 7 ed 8 giugno, prende il nome di “Glob(e) al Shakespeare”, e prevede la messa in scena di due spettacoli shaekespereani consecutivi per ognuna delle tre serate. Sottoponiamo alla nostra attenzione tre di questi: Tito, Otello e Le allegre comari di Windsor.

Come per tutti gli eventi di profonda intensità, risulta stancante seguire fino in fondo ed in determinati passaggi la tragedia di Shakespeare Tito. Ciò perché l’intenzione tragica dell’autore è stata rispettata dalla regia di Gabriele Russo; seppur in una reinterpretazione del testo in chiave atemporale ed in tempi notevolmente ridotti. Testimonianza questa che per avere riguardo di un autore non bisogna obbligatoriamente riportare una sua opera in scena così come ci è andata la prima volta, che sia stata ieri o secoli fa. Rispettare Shakespeare non significa ricreare pomposi sfarzi seicenteschi di abiti e mobilia o impostare recitazioni innaturali ai nostri giorni. Un testo può essere innovato e rivalutato, riscoperto e valorizzato in ogni modalità possibile, purchè si badi bene a non disperdere gli imput originari che non vanno mai sacrificati. Partendo da questo assunto, la buona riuscita o meno della pièce è rimessa al buon gusto del regista.

Oltre a comprendere le intenzioni e contestualizzarle senza forzature, mettere mano ai testi di Shakespeare in particolare impone un altro impegno di primaria importanza: non violentare una lingua che da circa quattro secoli resta la colonna portante di un autore che più di molti altri ne era architetto sopraffino.

Nell’eleganza delle parole e nella maestria del loro assemblaggio aggraziato è la forza principale dell’emblema Shakesperiano: Shakespeare scriveva anche per il popolo, per un pubblico di bocca buona, e non ripudiava passaggi di comicità grossolana che fossero aderenti ai gusti di classi sociali non elevatissime; nonostante ciò, in nessun passaggio profana la raffinatezza che è sua cifra stilistica.

shakespeare Globe Theatre
shakespeare- Tito

Questi i presupposti che  Michele Santeramo ha rispettato nella riscrittura della sopracitata tragedia. Un pizzico di ironia al posto giusto ed attori competenti tutti fortemente caratterizzati, dai tratti definiti e ben individuabili;  una forza scenica imponente che anche in un gesto, in un respiro, in una parola, rispetta le aspettative che crea.

Da sottolineare è l’importanza dell’assetto musicale della scena, parte integrante di essa sia per la suggestione che porta che per la bellezza in se dei brani scelti.

Uno spettacolo molto di fotografia, a volte di linea cinematografica: alcune scene di impatto restano in fermo immagine nella mente dello spettatore; prima fra queste quella della morte dei due figli della regina Tamora.

La tragedia di Tito la abbiamo sentita tutti: è la tragedia del padre, del guerriero, il dramma della vendetta che genera un’altra vendetta in una nemesi infinita, è il male che procura altro male, il dolore che porta solo dolore, è la perdita assoluta di pietà ed umanità, che scade nel macabro, nell’atroce, nel barbaro; che rivela queste qualità come componenti primordiali ed imprescindibili dell’essere umano. La tragedia del genitore sulle cui spalle preme il peso della difesa della progenie che vorrebbe tutta sana e felice, ma che è costretto ad accettare anche nel dolore; dolore sempre lì presente a ricordare a Tito, che sebbene egli abbia rifiutato il titolo imperiale, non riuscirà a perseguire l’obiettivo di vivere come un “uomo normale”, che i suoi figli dovranno sempre scontare il fardello della vendetta trasversale, e che a lui non resta che assumersi la relativa consolazione di versare altro sangue sull’onta del male ricevuto, in un intreccio psicologico dove le pene del padre e la brama del combattente sono indistinguibili.

La lingua del Bardo e i suoi adattamenti

Una lingua troppo artefatta, un atteggiamento pomposamente barocco, in poche battute avrebbe ridicolizzato il tutto. Ma non lo si poteva neanche banalizzare, un linguaggio che è passato alla storia per la sua finezza mai vuota di contenuto. Michele Santeramo ha trovato un equilibrio mirabile; accortezza che è mancata a Giuseppe Miale di Mauro e ad Andrea Vellotti, che hanno tentato una riscrittura dell’ Otello che ne è stata una rude usurpazione.

I personaggi non erano per niente aderenti agli studi critici appurati sui loro riguardi, che li rivelano portatori di volontà, simboli e storie molto più profondi di quelli risultati dalla messa in scena della compagnia Nest. Accantonando per un attimo il fatto che la riduzione del testo non ha trovato espedienti in grado di non profanare l’integrità dell’originale, nel complesso l’unico personaggio che si è rivelato  aderente all’intenzione shakespeariana è stato Iago.

Motore della storia, infimo, arrivista e vile. Anche Emilia non discostava troppo da quella della penna di Shakespeare; di Desdemona, la cui caratteristica emblematica è il rapporto con il padre, che spiega gran parte del suo carattere, relazionato sempre ad uomo di potere che la protegga sotto la sua ala, è detto molto poco. Dell’Otello del Bardo, invece, si evince solo la grossolanità, dovuta a mere ragioni di incultura e “professione”.

Ma quando Shakespeare aveva disegnato un moro rude e non un principe, non intendeva certo un camorrista di Gomorra quale protagonista della sua tragedia. La caratteristica dell’essere grezzo e più propenso a fare la guerra che a corteggiare le principesse, poteva godere di modalità di definizione ben più profonde e fini dello sputare parolacce gratuite, assumere atteggiamenti trogloditici e tic primordiali, e soprattutto  svalutare un dialetto napoletano (lingua meravigliosa ma troppo filologicamente e semanticamente discostante dalle tragedie londinesi seicentesche) che potrebbe conservare invece la dignità del suo storico vernacolo. Il rischio in cui si incorre è quello di una indigesta insalata di stili.

shakespeare Globe Theatre
Napoli Teatro Festival

Di questo tonto Otello non risulta nessuna sfumatura di un’analisi psicologica (dall’ambizione al superamento del valico razziale all’arrivismo sociale conseguito anche grazie al matrimonio con la figlia del doge di Venezia, città per lui amore più grande di ogni qualsiasi altro legame);  che va ben oltre la tragedia della gelosia.

Il supporto di una sorta di “coreuti”, quali figure esterne ma  integrate, non è mancato e non ha guastato in nessuno degli spettacoli in analisi; ma è risultato alquanto fuori luogo l’inserimento del rap napoletano.

La sessualità, sul palco, non è inapplicabile o irriproducibile; purchè non sfoci in banalità nel disperato tentativo di sconvolgere un pubblico che ha ormai visto di tutto. È possibile mantenere una certa classe anche nella riproduzione dei più carnali atti pratici, come è infatti accaduto in Tito e non in Otello. Seppure di cattivo gusto, comunque, resta una simbologia prepotente della scena finale di Otello: il moro ammazza Desdemona mentre la possiede con ardore. L’amore che porta alla morte. La morte per amore. La morte durante l’amore. Il nesso fra l’amore e la morte, la gelosia.  La gelosia d’amore motore del tutto. Messaggio di limitata interpretazione, ma che comunque riesce a passare.

Inutile soffermarsi sul fatto che Otello non fosse né moro né anziano: la vicinanza alle radici profonde delle trame non giace nella definizione dei tratti esteriori dei personaggi; sebbene, comunque, anche un piccolo ed indicativo dettaglio avrebbe avuto il potere di mantenere vivo un legame con l’originale senza però restare limitato in esso (cosa che è accaduta in Tito, dove Aronne è moro solo simbolicamente).

Incisiva ai fini dell’empatia con il protagonista, invece, l’immagine evocativa della folle gelosia scatenatasi nella testa di Otello, riprodotta tramite proiezioni (sempre una spanna più volgari del dovuto), musiche, e posizioni dell’attrice.

Allegre commedie e Allegre Comare

La forte caratterizzazione dei personaggi è la qualità che ha giovato alla buona riuscita anche delle  “Allegre comare di Windsor”, una regia di Serena Sinigaglia e una riscrittura di Edoardo Erba.

Ci discostiamo dalla tragedia per avvicinarci all’ambito della commedia: pertanto, la trama è semplice nel suo intrigo elementare e la comicità sta nelle interpretazioni delle simpatiche “comare”, che in effetti non hanno mancato nell’obiettivo.

Una divertente nota di stile la figurina di un goffo attore muto fatto di poche entrate eppure tante risate; una scelta registica quella di un’interpretazione principalmente affidata a quattro attrici donne che interpretano tutti i ruoli, compresi quelli maschili, ma senza mascheramenti: in una sorta di meta-teatro indefinito che concentra la sua apoteosi nel personaggio di Quickly: lei è la domestica, è l’amica, è l’alter ego di Falstaff, ed è perfino Falstaff travestito da Quickly! (da zia della cameriera della signora Ford).

Le simbologie cambiano ma non si perdono, ed è molto efficace quella dell’immagine onirica del bosco di notte, attraversato da fate e folletti.

Non guastano gli improvvisati momenti musicali che condiscono il tutto, e non stona neanche la singolare (ma appropriata ai giusti spazi e ai giusti tempi) illustrazione da “siciliano geloso” che la signora Ford da al marito quando si diletta nelle sue imitazioni.

Nota di demerito invece, l’attenzione prestata al rapporto diretto con il pubblico: è si vero che il contesto favoleggiante rendeva un po’ tutto possibile; ma sfiorare il limite dell’infrazione della quarta parete, laddove essa resiste a rappresentare uno degli ingredienti fondanti della magia del teatro, era comunque evitabile. D’altronde, tale input non era mancato neanche in Tito.

Nel complesso,  l’esperimento di rendere il palco del Bellini quantomeno più profondo e di corredarlo di un utile sistema di botole, per avvicinarsi a quello del Globe Theatre, pare essere risultato abbastanza funzionale, specialmente se si valuta che il palcoscenico nudo ha fatto da scenografia quasi integrale, in quanto gli arredamenti delle scene erano poveri e facili da adattare ai veloci cambi fra una pièce e l’altra.

Letizia Laezza

Sitografia

Napoli teatro Festival 2017: il programma