Lo specchio, tra psicoanalisi e teoria cinematografica

Lo specchio riflette ed è per questo che sembra immediato il suo rapporto con il tema del doppio: grazie ad esso ci si riflette, ci si riconosce, ma, allo stesso tempo, è uno strumento di perdizione. Inoltre, ancora più specificatamente, è legato alla vista, all’occhio: gli strumenti della conoscenza e della coscienza (nelle credenze popolari, gli specchi sarebbero anche in grado di imprigionare l’anima nell’immagine riflessa, ed è per questo che le creature demoniache non riescono a riflettersi). Gli stessi occhi, poi, vengono definiti come “specchio dell’anima” perché hanno capacità riflettenti (“vedere” è, nel senso propriamente tecnico, un atto di “riflessione”) e di trasmissione dell’umore, dei sentimenti.

«Si sa che non esisto: esistono solo i mille specchi che mi riflettono»[1].

Lo specchio, tra psicoanalisi e teoria cinematografica

Jacques Lacan (1901 – 1981), psichiatra e filosofo francese, colloca tra i sei e i diciotto mesi d’età, lo stadio dello specchio: la capacità di riconoscersi e di scoprirsi come soggetto, un primo abbozzo di identità.

Tale identificazione pone le basi a ciò che può essere considerato il sentimento di identificazione dello spettatore nell’immagine cinematografica.

Uno dei primi a interessarsi a questa duplice analogia (tra bambino allo specchio e spettatore al cinema, tra specchio e schermo cinematografico) è Baudry: il quale afferma che i diversi elementi propri della sala cinematografica (proiettore, sala buia e la grandezza dello schermo) pongono lo spettatore in uno stato di sottomissione fisica, di sovrapercezione visiva e uditiva nella quale si instaura un gioco di identificazione e di attrazione che pone in essere lo stesso processo descritto da Lacan.

Lo spettatore, di fatto, rivive il processo di formazione del proprio Io.

Metz partirà da queste considerazioni per sottolineare, invece, una piccola ma sostanziale differenza tra specchio e schermo cinematografico:

«Quindi il film è come lo specchio. Ma in un punto essenziale esso differisce dallo specchio primordiale: per quanto, come in quest’ultimo, vi possa venir proiettato di tutto, c’è una cosa, una sola che non vi si riflette mai: il corpo dello spettatore»[2].

Ciò non può essere sottovalutato se si considera che, invece, per Lacan è proprio attraverso la riflessione corporea che il bambino prende coscienza di sé.

L’analogia tra i due elementi è data, invece, secondo Metz, dal fatto che lo spettatore, al cinema, «si identifica con se stesso, con se stesso come puro atto di percezione» perché si identifica non con il personaggio ma con la macchina da presa, con il punto di vista della macchina da presa.

L’immagine – specchio, Deleuze

A parlare ancora di specchio e del suo legame con il cinema è Deleuze, lo studioso che, forse, più di tutti si è dedicato alla settima arte.

Deleuze, infatti, nell’ultima parte dell’Immagine-tempo, parla delle immagini cristallo: in cui reale e virtuale si compenetrano e fanno parte, allo stesso modo, del medesimo spazio.

L’immagine cristallo per eccellenza è l’immagine allo specchio:

«L’immagine allo specchio è virtuale in rapporto al personaggio attuale che lo specchio coglie, ma è attuale nello specchio che lascia al personaggio soltanto una semplice virtualità e lo respinge fuori campo»[3].

Seguendo il percorso fatto da Deleuze, si parte dal finale della Signora di Shangai di Orson Welles, nel quale gli specchi moltiplicati hanno catturato tutta l’attualità dei personaggi, i quali sono in grado di ritrovarla (ormai inutilizzabile perché sono feriti mortalmente) solo rompendo tutti gli specchi.

Ma lo specchio è inteso anche come quel virtuale attraverso il quale esplicare delle inconfessabili verità, così come avviene ne Il posto delle fragole (I. Bergman, 1957).

Il posto delle fragole è un lungo viaggio nei sentieri della memoria del protagonista (o dello stesso Bergman) e sarà proprio uno dei suoi ricordi, l’immagine di Sara ancora giovane, a metterlo di fronte a una spaventosa verità costringendolo a guardare in uno specchio la propria immagine: «non sei altro che un vecchio timoroso che presto morirà».

specchio

Ed è sempre nella filmografia di Bergman che si possono ritrovare diversi momenti e richiami alla funzione/significato dello specchio: in Sussurri e grida, ancora una volta, lo specchio mette in evidenza la tragicità del reale, di andare oltre l’aspetto visivo e tracciare una vera e propria mappa dell’animo della protagonista.

A questo punto è inevitabile citare l’autore che può essere definito «poeta del tempo»[4] (per il quale non mancheranno futuri approfondimenti) e che, nel 1974, dirige Lo specchioTarkovskij.

Lo specchio a cui fa riferimento Tarkovskij riflette se stesso e l’altro, è uno specchio che diventa ingresso e tunnel verso altri mondi, è il passaggio per il sogno, per il ricordo e il surreale. Ma lo specchio è anche il luogo in cui facciamo i conti con noi stessi, con i nostri desideri (intimi, irraggiungibili…) e con le nostre paure.

«Egli è assente, ma il modo in cui pensa e quello che pensa creano una rappresentazione di esso vivida e definita. È in questo modo che, in seguito, è stato costruito Lo specchio»[5].

Lo specchio come ingresso verso altri mondi è anche il fulcro di Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo (2009) diretto da Terry Gilliam. A capo di The Imaginarium, un circo itinerante c’è il Dottor Parnassus, possessore di uno specchio magico che gli permette di accedere a mondi fantastici. Tuttavia, i poteri dell’oggetto provengono da un patto che l’uomo ha stretto con il diavolo: l’anima di Valentina, la figlia del dottore, quando compirà 16 anni.

specchio

Ma lo specchio, come si è visto, non è solo una porta verso mondi fantastici, reali e irreali al tempo stesso, ma anche la superficie riflettente (e non necessariamente speculare) attraverso la quale vediamo noi stessi (non sempre in modo realistico, quindi) e ammiriamo i nostri sogni (che, a volte, sono splendidi proprio perché irrealizzabili).

Una superficie delicata, fragile e da proteggere e non necessariamente un mondo in cui immergersi e da vivere.

Così come viene raccontato in Labyrinth, film fantastico (ispirato ad Alice nel paese delle meraviglie e al Mago di Oz) del 1986 diretto da Jim Henson.

Jareth, il re dei Goblin (interpretato da David Bowie) offre a Sarah (una giovanissima Jennifer Connelly), in cambio di suo fratello, una piccola sfera di cristallo in cui, dice, sono racchiusi tutti i suoi sogni. Sarah rifiuta l’offerta e comincia la sua avventura, dimostrando come, a volte, non siano i sogni e l’amore a doverci salvare ma siamo noi a dover salvare loro.

Cira Pinto

[1] V. NABOKOV, L’occhio, p. 100.
[2] C. METZ, Cinema e psicoanalisi.
[3] G. DELEUZE, L’immagine-tempo, p. 84.
[4] F. BORIN, L’arte allo specchio: il cinema di Andrej Tarkovskij, p. 11.
[5] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, p. 31.