Terra: la recensione del quarto album di Vasco Brondi

Cavalcando l’attesa creatasi dopo il rilascio di tre singoli, esattamente come tre sono gli anni che distano dall’ultima pubblicazione, il 3 marzo 2017 uscì Terra, il quarto album de Le Luci della Centrale Elettrica, il gruppo di Vasco Brondi.

Vasco Brondi: Le Luci della Centrale Elettrica

terra Vasco BrondiFerrarese per nascita, milanese per adozione e, in un certo senso, per vocazione, Vasco Brondi è il cantautore celato dietro il nome collettivo e perciò rassicurante, di una sicurezza però surrogata, de Le Luci della Centrale Elettrica.

Nato nell’84, comincia fin da giovanissimo a lavorare, venendosi subito a scontrare con la realtà desolante, vuota perché annichilita, degli anni ’90: figlio della periferia architettonicamente ridondante e delle sere ripetutamente lasciate a loro stesse, Vasco cresce accumulando sotto la pelle l’ansia e l’inquietudine che sono in realtà condivise con tutta la generazione a cui appartiene, e la mette su carta, e le accompagna con la sua chitarra, facendosene portavoce.

I vent’anni: ansie acerbe

Vasco il primo disco lo pubblica che è giovane e artisticamente ancora parecchio grezzo, immaturo. Ma la sua proposta musicale suona originale e allo stesso tempo immediata. I suoi pezzi si sviluppano attraverso flussi di coscienza che scrosciano veloci su pochi accordi dipananti da una chitarra acustica che li sostiene, senza annegarli.

“Canzoni da spiaggia deturpata” è il prodotto di un ragazzo annichilito dalla vita urbana, che racconta il degrado delle periferie come se lo stesse raccogliendo in un album fotografico, ma senza fotografie, con immagini evocate solamente dalle parole.

Seppure incompleto nello sviluppare tutti gli spunti, il disco catalizza sul giovane ferrarese l’attenzione della critica. Così non tarda tempo che viene pubblicato “Per ora noi la chiameremo felicità“, secondo disco che quasi nulla aggiunge al primo: un seguito che sembra quasi scritto usando la carta carbone. Tra i pezzi però svetta “Quando tornerai dall’estero”, forse il migliore del suo repertorio.

Costellazioni: l’arrivo della maturità

Il terzo disco segue il precedente di 4 anni, nel mezzo dei quali Vasco placa la fame dei fans dando loro in pasto “C’eravamo abbastanza amati“, un EP registrato dal vivo con  interessanti partecipazioni illustri, prima tra tutte l’altisonante nome di Manuel Agnelli.

In questi 4 anni l’autore ha scambiato e preso idee musicali da tanti altri suoi colleghi, rielaborando il suono, più lavorato, più levigato negli arrangiamenti. Le turbe distorte di Giorgio Canali, cascanti a volte nello shoegaze, rimangono relegate ai vent’anni: in “Costellazioni” il suono si arricchisce di nuovi strumenti, diventando senz’altro più pieno e corale, perdendo forse la sua immediatezza, ma mutando in maniera coerente coi temi delle liriche, meno arrabbiate.

Terra: esperimento di cantautorato etnico

“Terra” segna un ulteriore taglio col passato, qualcosa di nuovo anche rispetto a “Costellazioni”. L’idea artistica dietro questo progetto è quella di sposare il cantautorato vascobrondiano, seppur ancora una volta ulteriormente edulcorato rispetto ai lavori della precedente produzione, alla musica etnica. Ma alla musica etnica di un etnia in formazione, quella dell’Italia degli anni ’10, un melting pot, un crocevia che pian piano si sta arricchendo di nuove culture.

La musica balcanica è una matrice evidente, di sicuro più di quella africana, dalla quale sono presi, quasi timidamente, solo pochi spunti. L’ambizione concettuale fa si che il disco si evolva soprattutto attraverso le strutture ritmiche degli arrangiamenti, spesso aspetto preponderante, perfino sulle parole. Gli esempi più evidente sono rappresentati dal primo singolo estratto, Stelle Marine, e dal crescendo acustico di Nel profondo Veneto.

Il temi principali sono le contraddizioni sociali, gli stenti di una nuova classe sociale che si sta formando, quella degli studenti sballottati dalle riforme, quella degli immigrati che cercano di inserirsi in un’Italia in crisi, quella degli speculatori virtuali.

Brondi affronta questi temi non con rabbia però, ma anzi con una forma di speranza malinconica, non arresa, in un disco molto ambizioso, che non può però dirsi realizzato fino in fondo: l’idea di base, già poeticamente difficile, regala spunti non appieno realizzati e che, forse per fretta, talvolta cadono nel banale, lasciando l’amaro in bocca, ancora una volta.

Lorenzo Di Meglio