Luna: la contemplazione dei poeti dell’Ottocento

La luna, unico satellite naturale della Terra, è stato spesso protagonista in molte mitologie e credenze popolari: le era consacrato un tempio e un giorno della settimana, il lunae dies, da cui lunedì. Nella mitologia greca era chiamata Selene, figlia dei titani Iperione e Teia, sorella del Sole (Elio) e dell’aurora (Eos).

LLunaa luna è ancora oggi usata in espressioni popolari per fare riferimento alla mutabilità dell’umore, equivalente alla mutabilità delle fasi lunari. Impossibile, dunque, fare a meno di rendere la luna un’immagine poetica suggestiva; cosa che per alcuni critici sembrava riuscire meglio ai poeti prima che l’uomo vi posasse piede o bandiera desacralizzando la sua funzione ispiratrice, anche se già i futuristi si erano scagliati ideologicamente “Contro il chiaro di luna”, con l’intento di uscire dai vincoli romantici e dalle espressioni falsamente poetiche considerate passatiste. Quindi, vediamo la luna cantata da alcuni poeti dell’‘800, secolo precedente alla sua “violazione” da parte dell’uomo.

Leopardi: una silenziosa testimone

Al 1819 risale la poesia Alla luna di Giacomo Leopardi che fa parte dei canti definiti Piccoli idilli. L’ambientazione è la stessa de “L’infinito” sulla cima del colle, il monte Tabor, a Recanati. IlLuna poeta marchigiano si rivolge intimamente alla luna, muta testimone del suo dolore, e ricorda quando prima l’aveva ammirata con occhi piangenti, a causa dell’angoscia che l’opprimeva.

A distanza di tempo il dolore del poeta resta immutato, ma non sgorgano più lacrime dai suoi occhi, come se il dolore fosse diventato l’abito normale del poeta, che prova però sollievo proprio nel ricordo del passato, quando, se pur segnato dalla sofferenza, la giovinezza era piena di vive speranze per il futuro e che invece l’uomo maturo vede tramontare.

“O graziosa Luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva,
5siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto,
che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
il tuo volto apparia, ché travagliosa
era mia vita: ed è, né cangia stile,
10o mia diletta Luna. E pur mi giova
la ricordanza, e il noverar l’etate
del mio dolore. Oh come grato occorre
nel tempo giovanil, quando ancor lungo
la speme e breve ha la memoria il corso,
15il rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri!”

Questo componimento di Leopardi lo si può dividere in tre parti: nella prima parte si rivolge alla luna e istituisce, sul filo del ricordo, un confronto col proprio passato. Nella seconda parte si configura una nuova fase dell’esperienza del dolore che si è consolidata nel poeta recanatese. Nell’ultima parte, l’esperienza personale rievocata assume valore universale: in età matura la funzione vivificante delle speranze è svolta dai ricordi che col passare del tempo perderanno inesorabilmente la loro dolcezza.

Circa dieci anni dopo Leopardi scrive il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia dove il poeta, nelle vesti di un pastore, interroga proprio la luna sulla condizione umana e sul suo incarico di governare il gregge, che non è a conoscenza del dolore dell’esistenza, in quanto di natura animale. L’ispirazione giunge a Leopardi dalla lettura di un articolo del barone di Meyendorff (Voyage d’Orenbourg à Boukhara fait en 1820), pubblicato dal «Journal des Savants» nel settembre del 1826, dove si descrive l’abitudine dei pastori nomadi kirghisi di intonare malinconici canti mentre contemplano la luna. Il pastore interroga la luna, senza ricevere risposta. Sogna di viaggiare, di volare via dal mondo, ma non può, e così conclude che è tragico l’essere nati.

“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?…”

Victor Hugo: una crudeltà al chiaro di luna

“Chiaro di luna” è tra le opere più conosciute di Victor Hugo; questa appartiene alla produzione giovanile del poeta e fa parte della raccolta del 1829 Le Orientales, opera di carattereluna prevalentemente descrittivo i cui componimenti sono dettati dall’esigenza di ricercare nuovi ritmi musicali per esprimere sensazioni in un modo nuovo per l’epoca.

In questa lirica si descrive l’atmosfera notturna e serena, dove i giochi di luci prodotti dal chiarore lunare si intrecciano con le vibrazioni di una chitarra. All’improvviso, però, l’incanto viene interrotto da un opaco rumore: i tonfi di prigionieri gettati in acqua crudelmente cuciti dentro dei sacchi. La poesia è introdotta da un verso in epigrafe tratto dal secondo libro dell’Eneide di Virgilio“Per amica silentia lunae”, “nei complici silenzi della luna”.

 

“La luna è serena e gioca sui flutti.

Alla finestra libera e aperta alla brezza,

la sultana osserva, il mare si frange laggiù

e con fili d’argento ricama gli scogli neri.

La chitarra vibrando le scivola di mano,

lei ascolta…l’eco sorda di un opaco rumore.

Un pesante vascello turco dalle spiagge di Cos

forse approda ai lidi greci, coi suoi tartari remi?

O sono i cormorani coi loro alterni tuffi

e le ali su cui l’acqua in perle scivola?

[…]

Non è il cormorano nero cullato dall’onda,

non sono pietre delle mura, né il suono cadenzato

del vascello che avanza sull’acqua con i remi.

Da sacchi pesanti giunge il singhiozzo.

Si muovono nel mare che li sospinge

come inquieti fianchi di forma umana.

La luna è serena e gioca sui flutti.”

A quel tempo era molto sviluppato l’interesse per gli studi delle civiltà orientali e le ripercussioni emotive che ebbe su Hugo, a partire dal 1821, la lotta dei Greci per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, indipendenza che otterranno nel 1830. Il clima di dolcezza e serenità che esprime la lirica e le osservazioni coloristiche (con fili d’argento ricama gli scogli neri) sono accompagnati dal suono di una chitarra che potenzia l’incanto della situazione.

L’atmosfera sospesa viene interrotta da un opaco rumore, sinestesia che fonde una sensazione acustica con una visiva, e ciò consente di spostare il punto d vista che diventa quello di una sultana che formula una serie di ipotesi sull’origine del rumore. Nell’ultima strofa il punto di vista dell’autore coincide con quello della sultana: le emozioni si proiettano in un mondo esotico secondo il modo di sentire caro ai poeti romantici. Le ipotesi si infrangono contro la realtà evocata, una crudeltà ancora più suggestiva perché taciuta.

D’Annunzio: magiche sospensioni

lunaNel 1882 Gabriele D’Annunzio pubblica la raccolta Canto novo in cui è inserita “O falce di luna calante” che attraverso elementi astratti e simbolici esprime alcune suggestioni del pensiero di , che il poeta abruzzese cominciò a recepire a partire dagli anni Novanta. La poesia rappresenta un “notturno” contemplativo e meditativo, un momento di pausa e di riflessione rispetto alla celebrazione “solare” delle forze della natura che caratterizza la raccolta.

“O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe ’l vasto silenzio va.

Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”

lunaImmerso nella solitudine e nel silenzio, il poeta osserva la luna che brilla sul mare e, dopo l’esplosione diurna delle energie vitali, coglie l’intima atmosfera di pace e riposo, di magica sospensione determinata dall’aria immobile dell’ora notturna. Le “messe”, i raccolti di sogni si collegano alla falce della luna che miete i sogni degli uomini.

La luna si inserisce all’interno della visione della realtà tipica del sistema interpretativo dei poeti non come un semplice elemento bucolico che decora il paesaggio, ma divenendo simbolo evocativo di speranza, solitudine, tradizione letteraria, ma anche sentimento religioso o mitico fino a metafora di preziosa conoscenza.

Maurizio Marchese