Orfeo ed Euridice, l’amore oltre la morte

L’amante che cerca di strappare la persona amata dalle grinfie dell’eterno riposo è uno dei miti che ha più affascinato la cultura di ogni tempo. Per noi occidentali questo mito è rappresentato dalla storia di Orfeo ed Euridice, una delle prime narrazioni riguardanti una passione che cerca di superare le barriere della morte.

Il mito di Orfeo ed Euridice

Nato in Tracia dal re Eagro e dalla musa Calliope, Orfeo suonava la cetra magistralmente ed era abile nell’arte del canto.

Ma Orfeo è noto anche per la triste storia che lo vede protagonista assieme alla sua amata moglie, Euridice. Si racconta che un giorno la fanciulla, mentre fuggiva dal pastore Aristeo che era innamorato di lei, fu morsa da una vipera che la uccise. Venuto a sapere del tragico evento, Orfeo non accetta il nefasto destino e decide di riportare in vita l’amata.

Così scende negli inferi  e per mezzo della sua abilità con la cetra, Orfeo riesce a commuovere le anime e le creature dell’oltretomba e giunge al cospetto di Ade e di Persefone, riuscendo nell’impresa di commuoverli.

Orfeo riesce a riavere l’anima di Euridice, ma Persefone gli pone una condizione: non dovrà voltarsi a guardare la fanciulla, fino a quando non avrà messo piede fuori dagli inferi. Il cantore però non riesce a resistere alla tentazione e, voltatosi indietro, l’anima di Euridice torna indietro irrimediabilmente. Da quel momento Orfeo rifiuta di unirsi ad altre donne e per questo le Menadi, le donne adoratrici del dio Dioniso, si sentono offese quando il cantore le evita e lo uccidono smembrandolo.

Il mito di Orfeo ed Euridice nelle Georgiche

La vicenda di Orfeo ed Euridice è stata riletta dagli autori di ogni tempo, a partire da quelli latini. Interessante è la rilettura che ne fa Virgilio nelle Georgiche.

Virgilio ritratto in un mosaico romano Orfeo ed Euridice
Virgilio ritratto in un mosaico romano

Nel quarto e conclusivo libro del poema didascalico l’autore mantovano, attraverso il meccanismo del “racconto nel racconto“, lascia che sia Aristeo a narrare la triste vicenda di Orfeo ed Euridice (infatti il quarto libro ha come tema centrale l’apicoltura e proprio le api erano associate ad Aristeo).

Ti perseguita l’ira di un dio, e non dappoco,
sconti una grave colpa commessa: Orfeo, infelice
senza sua colpa, ti suscita queste pene, se il fato consente,
disperato per la moglie che gli è stata rapita.
Mentre ti fuggiva per i fiumi a precipizio,
la fanciulla non vide davanti ai suoi piedi nell’erba alta
un immane serpente che presidiava le rive e fu condannata a morire.

[…]

Bisogna tenere presente che Virgilio conosceva due versioni del mito: una dove Orfeo riusciva a riportare Euridice tra i vivi, l’altra (che è anche quella che è più nota a noi) mostra invece il cantore perdere per sempre l’amata. Il poeta decide di optare proprio per quest’ultima versione e lo fa per uno scopo determinato. Infatti sembra che Virgilio voglia negare alla poesia quel potere onnipotente, tale da permetterle di scavalcare qualunque ostacolo.

Con il potere del canto Orfeo riesce a riavere l’anima di Euridice, ma il cantore viola il patto della regina infernale e perde per sempre la sua amata.

 

[…]

quando un’improvvisa follia prese l’amante incauto;
perdonabile, se potessero perdonare gli dei di sotterra:
sulla soglia ormai della luce immemore, vinto nell’animo,
si fermò e si volse a guardare la sua Euridice e perdette
tutte le sue fatiche, fu rotto il patto del crudele tiranno
e tre volte si udì un fragore per gli stagni d’Averno.
‘Quale enorme follia ha distrutto me infelice
e te, Orfeo? Di nuovo mi chiamano indietro
i fati crudeli e il sonno spegne i miei occhi offuscati.
Addio: mi circonda e mi inghiotte una notte infinita
mentre non più tua, a te tendo invano le mani.’

[…]

Il mito di Orfeo ed Euridice viene usato da Virgilio anche come un ammaestramento per il cittadino romano. Affinché la pace, duramente ottenuta da Ottaviano Augusto con lo spargimento di sangue nelle guerre civili, venga mantenuta deve collaborare nel suo piccolo: non solo l’uomo deve conoscere i propri limiti e cercare di non addentrarsi in imprese oltre le sue capacità, ma anche eliminare tutte quelle passioni che lo portano a sottrarsi ai suoi doveri.

In questo caso la passione d’amore, che Virgilio denomina “furor“, porta gli uomini a cospargersi di onnipotenza per poi precipitare rovinosamente nell’illusione (forse un chiaro riferimento “critico” alla poesia elegiaca, la poesia d’amore latina per eccellenza)

Orfeo ed Euridice in Ovidio

Orfeo ed Euridice
Enrico Scuri – Orfeo ed Euridice (1842)

L’altro importante autore latino che ha trattato il mito di Orfeo ed Euridice è sicuramente Ovidio. Descrive il mito nel decimo libro delle Metamorfosi e la narrazione presenta una differenza di fondo con quella virgiliana.

Quando Orfeo si volta per guardare Euridice, quest’ultima non sembra rimproverare l’amante per il gesto scellerato. È come se la donna sapesse che l’amore non possa essere considerato una colpa o una debolezza, in quanto la passione è inevitabilmente parte dell’animo umano.

[…]

E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.

Ovidio è lontano dal condannare le pulsioni dell’animo umano (del resto, prima delle Metamorfosi, aveva scritto poemi didascalici come gli Amores e l’ Ars amatoria, tutti focalizzati sul sentimento d’amore) e piuttosto che tentare di ammaestrare gli uomini come fa Virgilio cerca di comprenderli, rifiutando così di giudicare il povero Orfeo.

Cesare Pavese. La storia di Orfeo ed Euridice nei Dialoghi con Leucò

Andando avanti negli anni sono stati molti gli autori che hanno rielaborato il mito di Orfeo ed Euridice. Per quanto riguarda la letteratura italiana, non si può non accennare a Cesare Pavese.

Orfeo ed Euridice Cesare Pavese
Cesare Pavese (1908 – 1950)

Nel 1947 lo scrittore pubblica I Dialoghi con Leucò, una serie di conversazioni tra personaggi della mitologia greca. Pavese dedica al dramma di Orfeo ed Euridice il dialogo L’inconsolabile, dove il cantore ha un dialogo con una baccante e le racconta la sua storia.

ORFEO: È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.

BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.

ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.

BACCA: Qui si dice che fu per amore.

ORFEO: Non si ama chi è morto.

BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline – l’hai cercata e chiamata – sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?

ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.

[…]

L’Orfeo descritto da Pavese è forse molto più umano di quello descritto da Virgilio e da Ovidio. Ci troviamo davanti ad un uomo che si è rassegnato al suo destino e che non è più animato dal desiderio di soverchiare il volere delle divinità.

Per questo decide di voltarsi a guardare Euridice, perché preferisce semplicemente vivere il presente e dimenticare il passato. Orfeo quindi smette di essere quell’uomo tanto caro agli dèi, per divenire semplicemente un’anima destinata all’infelicità.

Ciro Gianluigi Barbato