Eugenio Montale e l’influenza d’oltralpe in Ossi di Seppia

Nel 1925 Eugenio Montale dà alle stampe la sua prima raccolta di poesie, dall’emblematico titolo di Ossi di seppia, permeata non solo di chiare influenze dannunziane e pascoliane ma, in maniera ancor più tacita e sottile, anche della tradizione lirica europea della seconda metà dell’Ottocento e del primo ventennio del Novecento. E non è difficile risentirne l’eco in alcuni dei più conosciuti componimenti della raccolta, tanto da renderla, in seguito a uno sguardo critico e attento, un’opera dalle mille sfaccettature e risvolti.Montale Ossi di Seppia

Montale e Proust

Nella lirica “I limoni”, che fa da introduzione all’intera raccolta, ad esempio, il poeta genovese delinea, in pochi versi, i dettami del suo manifesto poetico:

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi […]
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Poi scrive ancora:

[…] qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore di limoni.

Montale supera l’esperienza sublime dei poeti aulici e quindi dello stesso D’Annunzio e volge il suo interesse verso una “poesia delle cose”, lontana da fulgide astrazioni. “L’odore dei limoni” sarà la sua “parte di ricchezza”, la sua breve, semplice epifania, lontana dalle sublimità auliche dei poeti della tradizione illustre.

Quando un giorno da un mal chiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto si scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Alla fine l’epifania ci sarà, e sarà tanto simile a quella che molti lettori conoscono pur senza conoscerne il testo d’origine: Montaleci si sta riferendo all’episodio della “madeleine” proustiana, in “Alla ricerca del tempo perduto”, capace di rievocare i ricordi di tutta una vita, di ricostruire scenografie sopite e nascoste nei meandri più oscuri della coscienza, attraverso un unico indizio: in un caso, appunto, la madeleine; in un altro i limoni, con il loro profumo e colore.

La figura del poeta in Ossi di Seppia

In un altro componimento che porta il titolo “Non chiederci la parola”, Montale dà vita invece alla sua personale figura di poeta, continuando, dunque, il manifesto di poetica ravvisato nel testo da noi precedentemente citato. Oltre a limitare gli effetti benefici di quest’arte (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe) ne distingue e isola i creatori, e quindi la poesia stessa, dall’uomo “che se ne va sicuro” delle proprie idee, che segue la volontà della folla imperante (forse qualche riferimento ai primi anni del fascismo).

Più di cinquant’anni prima, Charles Baudelaire paragonava la figura del poeta a un albatro, “principe / dei nembi, che frequenta la tempesta / e ride dell’arciere”, continuamente preso in giro per il suo goffo modo di muoversi. Isolato perché incompreso, proprio come il poeta di Montale, a cui si chiede, con fare sprezzante, “la formula che mondi possa aprirti”. Ma l’unica risposta che questi può dare è, secondo l’autore, soltanto una: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

L’eco della poesia di primo Novecento in Ossi di Seppia

L’influenza di Baudelaire non si risolve ovviamente nel solo isolamento a cui è costretto l’incompreso poeta. Il suo insegnamento che arriva a Montale passando per Rimbaud e, in maniera forse indiretta, per T. S. Eliot, rinviene a pieno in un altro importante componimento della prima raccolta montaliana.

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

La lirica, risalente probabilmente al 1924, presenta una serie di oggetti, di immagini, alle quali si ricollegano altrettanti situazioni, che possano essere di morte, di semplice sconforto o di dolore. Soltanto cinque anni prima, il poeta e saggista inglese T. S. Eliot aveva elaborato il concetto poetico del correlativo oggettivo, definito come:Montale

a set of objects, a situation, a chain of events wich shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked.

E lo stesso Baudelaire, attraverso il suo “Corrispondenze”, aveva molti anni prima elaborato un primo manifesto simbolista, definendo “la natura […] un tempio in cui colonne vive / talvolta lasciano uscire parole / confuse”. Quivi il riferimento è chiaro: Montale supera il proto-simbolismo di Baudelaire e fa suo il correlativo oggettivo di Eliot in maniera probabilmente indiretta, calando oggetti che solitamente offrono emozioni positive, in situazioni che li rendono tutt’altro che benefici: il ruscello che trova difficoltà a scorrere libero, la foglia che brucia e si accartoccia su se stessa e il cavallo, simbolo della potenza, che geme a terra trafitto dal dolore.

Male di vivere” che non è, ovviamente, solo del poeta; è un male che percorre le fondamenta della società malata in cui Montale vive. Società che di lì a qualche anno si ritroverà protagonista di un maledetto crimine umano.

Luciano De Santis

Bibliografia:

E. Montale, Ossi di seppia, A. Mondadori, Milano 1984;

C. Baudelaire, I fiori del male, F.lli Fabbri Editori, Milano 1970;

Enciclopedia Treccani.

Fonti Immagini:

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