Napoletani burloni…con la Morte

I napoletani discendono dagli dèi potrebbe facilmente affermare chiunque si trovasse per la prima volta ad ammirare la varietà di questo popolo del Sud. Un’omogeneità contraddittoria, che suscita ammirazione e perplessità, come quando si scopre di essere stati in un sogno solo dopo che si è desti.

I napoletani sanno amare la propria città, quel labirinto “intestinale” di vicoli che per forza bisogna conoscere a memoria, che pare che ogni uomo di Napoli vi si rifletta come in uno specchio, con i suoi tormenti e i suoi sentimenti. I napoletani conoscono l’arte dell’arrangiarsi, trovando il modo di arrotondarsi la paga, di reinventarsi, anche se si va oltre il limite della legalità. Tuttavia, per dirla alla Totò:

Io non rubo, integro. D’altra parte in Italia chi è che non integra?

La simpatia, non la simpatia banale che si dimentica, ma quella che lascia un sapore agrodolce sulla bocca di chi ride, è il vero ingrediente di un napoletano: dietro ogni battuta (sempre pronta) c’è un messaggio esistenziale, che determina l’io napoletano, diverso da ogni altro possibile. Se c’è una cosa che sta particolarmente a cuore al napoletano è il concetto di cazzimma; Pino Daniele la spiegò in questi termini:

Chi non è napoletano e non ha mai avuto modo di sentire questo termine, si chiederà giustamente di che si tratti. Ebbe’, “cazzimma” è un neologismo dialettale molto in voga negli ultimi tempi. Designa la furbizia accentuata, la pratica costante di attingere acqua per il proprio mulino, in qualunque momento e situazione, magari anche sfruttando i propri amici più intimi, i propri parenti […]. È l’attitudine a cercare e trovare, d’istinto, sempre e comunque, il proprio tornaconto, dai grandi affari o business fino alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè.
(Storie e poesie di un mascalzone latino, Napoli, Pironti, 1994)

Per completare il profilo (parziale, per quanto è complicato!) del “tipo” napoletano è importante ricordarsi del modo in cui questo popolo ha a che fare con la temuta “Falciatrice”: la Morte, che per i napoletani rappresenta il momento migliore per fare sfoggio della propria simpatia. Perché, si sa, i napoletani sanno esorcizzare con grande carisma e maestria uno dei problemi più discussi di tutta la storia della filosofia occidentale.

Ma come si ride della Morte? Basta osservare i napoletani e trarre un utile insegnamento di vita.

La Morte e lo scherzo dei napoletani

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Il Tuffatore di Paestum

La morte è l’esperienza umana più complessa di cui non si ha effettivamente una conoscenza empirica, se non attraverso gli altri. Il problema della morte nasce con la vita stessa, con le domande sul destino umano e sull’aldilà.

Sin dall’antichità, la riflessione sulla morte resta una costante, come dimostra un manufatto d’arte funeraria sul tema della “spiritualità” della morte: il famoso Tuffatore di Paestum, un affresco risalente al 480-470 a.C, che ritrae una figura atletica gettarsi dalle colonne d’Ercole nel mare della morte, per entrare in un mondo di conoscenza.

Napoli ha un forte legame con la Morte. Il culto dei morti si manifesta attraverso tradizioni secolari, di origine pagana, come la devozione alle «ossa» legata al culto delle «Anime del Purgatorio», percepibile particolarmente presso il Cimitero delle Fontanelle. Il modo in cui i napoletani si rivolgono ai teschi venerati è confidenziale, è familiare, è vivo. Ogni capuzzella è viva, è una storia da immaginare. Così, i morti di Napoli sembrano non essere mai morti per davvero; sono anime sospese tra il cielo e la terra, che, in qualche modo, riescono a mantenere un contatto con i vivi. Lo dimostra la tradizione del gioco del lotto, che fa dei morti in sogno un tramite per raggiungere la fortuna.

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Le prefiche, lamentatrici professioniste

I napoletani hanno con la Morte un rapporto “teatrale”: essi non scappano, ma esorcizzano la paura con riti e detti popolari. Il rituale delle esequie era molto sentito (ancora più di oggi) nel Meridione: un vero e proprio corteo funebre, con tanto di carri e di prefiche, le lamentatrici di professione.

Il lamento funebre, a cui era correlata una particolare gestualità, aveva la funzione apotropaica di allontanamento della morte. Allo stesso modo, chiudere gli occhi del defunto significava (si fa tutt’ora) evitare di attrarre alla morte i superstiti.

Tuttavia, i napoletani sono abituati a scherzare con la Morte, a ridere di essa, non perché costituisca un nemico invincibile, piuttosto è una filosofia di vita che ha plasmato il carattere contraddittorio del napoletano, sempre prossimo alla morte; a ricordarlo è l’imponente Vesuvio, in dormiveglia al di sopra degli eventi e degli uomini.

«Quanto mi dispiace di questa morte. Ero tanto simpatico, nel fiore degli anni». Lo afferma Totò nei panni dell’avaro barone Peletti quando crede di essere all’Inferno, nel famoso film 47 morto che parla. Un Totò avaro e credulone, che attraverso l’esperienza della morte riesce a trarre l’insegnamento per la vita. La risata è napoletana, così come la simpatia tragicomica del personaggio. Come non accennare all’umorismo e alla teatralità della morte, difronte alla quale tutti gli uomini sono uguali, nell’eterna poesia del Principe del sorriso, ‘A livella:

[…]Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a n’ato è tale e qquale.

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Pulcinella vince la Morte

Attraverso la risata, il sogno e la morte, anche Eduardo de Filippo veicola il suo messaggio di vita nella commedia Le voci di dentro: l’incomunicabilità, la volontà di vivere al di fuori delle amarezze del mondo, di un personaggio isolato anche nella finzione scenica, per morire ed esclamare: «Per favore, un poco di pace!».

I napoletani scherzano con la Morte continuamente, facendo uso di espressioni desacralizzanti, che hanno il fine di scacciare “benevolmente” la morte, in virtù di quell’aspetto scaramantico che caratterizza il “vivere alla napoletana”. Così, spesso, ci imbattiamo in esclamazioni del tipo: «ncopp’ all’anema ‘e papà!», «nun aggia vedè i figlie mije», «puozze sculà», «ogni lassat è perz», che esprimono una volontà di dominare la morte, di ridicolizzarla ove è possibile, senza per questo dimenticarsene.

Non a caso ai turisti che non sono ancora stati a Napoli si dice: «Vir Napule e po’ muor».

Giovannina Molaro

 

Bibliografia:

A.De Curtis, ‘A livella, Fausto Fiorentino Editrice, Napoli, 1981

Nando Mormone e Pino Imperatore, Capita solo a Napoli, Mondadori, 2015

Sitografia:

http://www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/2011_2_art2.html/