Esilio e letteratura. Rafael Alberti e Luis Cernuda

Non conosco gli uomini. Sono anni
che li cerco e li fuggo senza soluzione

(…)

(Luis Cernuda – A un poeta futuro)

Il 14 aprile del 1931 la seconda repubblica vede la sua nascita in Spagna. La parabola monarchica di Alfonso XII è terminata e per 6 anni la nazione verrà guidata da una coalizione di partiti. Pur non mancando episodi di tensione, la repubblica garantisce libertà di stampa, di culto e di pensiero. La data del 1 aprile 1939 segna la fine della guerra civile spagnola e anche la fine del periodo repubblicano. Infatti le truppe nazionaliste di Francisco Franco, con l’aiuto delle forze nazifasciste, daranno vita ad una dittatura lunga 36 anni.

In questo clima di transizione, culturalmente la Spagna è attraversata dall’esperienza della Generazione del ’27 (Generación del 27). Si tratta di un circolo di poeti ed artisti che riscopre l’eleganza della poesia colta del periodo barocco, ma anche la spontaneità dei canti folkloristici. Molti di questi artisti parteciparono attivamente al periodo storico accennato e le conseguenze della guerra civile non gli lasciarono libertà di scelta, se non quella di andare in esilio. Tra le varie esperienze, dobbiamo dare risalto a due in particolare: quelle di Rafael Alberti e di Luis Cernuda.

Rafael Alberti. Lontano col corpo, ma vicino con il cuore

Alberti
Rafael Alberti (1902 – 1999)

Nato nel 1902 in Andalusia, Alberti si trasferisce a Madrid nel 1917. Qui inizia la carriera di pittore e alcune sue opere vengono esposte nell’ateneo della città. Nel 1931, all’indomani della fondazione della Repubblica, Rafael Alberti si iscrive al partito comunista di Spagna e fonda la rivista Octubre. Forte oppositore del fascismo, dopo la vittoria franchista è costretto a scegliere la via dell’esilio. Si rifugerà dapprima in Francia, poi attraverserà l’America Latina prima di approdare a Roma, nel 1963. Alla morte di Franco, nel 1975 ritorna in Spagna e vi rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1999.

Obiettivo primario di Alberti è quello di fare, della sua poesia, una poesia civile. Tuttavia è proprio questa sua missione a costringerlo all’esilio. Tra le varie poesie scritte da Alberti attenzione particolare ne merita una del 1953, scritta durante il periodo argentino e che ritornerà in auge nel 1970, in quanto musicata dal complesso degli AguavivaCantano ancora i poeti andalusi.

Che cantano i poeti andalusi di oggi?
Che cantano i poeti andalusi di oggi?
Che cantano i poeti andalusi di oggi?

Cantano con voce d’uomo,
Ma dove sono gli uomini?
E con occhi d’uomo guardano,
Ma dove sono gli uomini?
Con cuore d’uomo sentono,
Ma dove sono gli uomini?

Cantano, e quando cantano sembra che siano soli
Guardano, e quando guardano sembra che siano soli
Sentono, e quando sentono sembra che siano soli
Che cantano i poeti, i poeti andalusi di oggi?
Che guardano i poeti, i poeti andalusi di oggi?
Che sentono i poeti, i poeti andalusi di oggi?

E quando cantano, sembra che siano soli
E quando guardano, sembra che siano soli
E quando sentono, sembra che siano soli

(…)

Il fatto che Alberti nel 1953 si trovi in Argentina non deve essere trascurato. Qualunque altro intellettuale, pur di dimenticare i dolori che provoca la lontananza dalla patria, si sarebbe concentrato sulla bellezza del paesaggio che lo circonda e si sarebbe dimenticato della sua infelice condizione.

Ma Alberti non è Plutarco, Dante o Goethe: è semplicemente Rafael Alberti e il suo ruolo di “poeta civile” lo obbliga a non dimenticarsi della miseria in cui riversa la Spagna, soprattutto la regione andalusa che gli ha dato i natali. Da quelle parti il franchismo ha mietuto molte vittime (tra cui Federico Garcìa Lorca, altro importantissimo esponente della generazione del ’27), tutti uomini e donne che si sono opposti al regime. Ecco allora che Alberti intona un canto teso tra nostalgia e rassegnazione, dove sembra che oramai non ci sia più nessuno in Spagna capace di ribellarsi alla morsa dell’autorità.

(…)

Ma dove sono gli uomini?

Forse che l’Andalusia è rimasta senza più nessuno?
Forse che sui monti andalusi non c’è più nessuno?
Nei campi e nei mari andalusi non c’è più nessuno?

Non ci sarà più nessuno a rispondere alla voce del poeta,
A guardare al cuore senza muri del poeta?
Così tante cose sono morte, che non c’è più altri che il poeta

(…)

Alberti
Il testo originale di Cantano ancora i poeti andalusi (1953)

Ma Alberti è consapevole del fatto che anche dopo la più cupa delle notti risorge il sole. Allora esorta il lettore ad osservare come ci saranno sempre più uomini liberi, pronti ad accogliere e a spargere il verbo del poeta.

(…)

Cantate alto, sentirete che altri orecchi sentono
Guardate alto, vedrete che altri occhi guardano
Gridate alto, saprete che palpita altro sangue

Non è più sommerso il poeta, rinchiuso nella sua buia fossa
Il suo canto sale a qualcosa di più profondo
Quando è dischiuso nell’aria da tutti gli uomini

E allora il suo canto è di tutti gli uomini.

(…)

Luis Cernuda e l’odio verso un “paese morto

Alberti
Luis Cernuda ( 1902 – 1963)

Se in Alberti si intravede una certa nostalgia per la patria, nella poesia di Luis Cernuda non è così. Nato nel 1902 a Siviglia vive una giovinezza difficile a causa della rigida educazione del padre, militare con il grado di colonnello. Studia giurisprudenza, ma alla morte dei genitori usa l’eredità paterna per trasferirsi a Madrid negli anni venti, entrando in contatto con gli ambienti culturali della “Generaciòn“. Dopo la guerra civile anche lui sceglie l’esilio, che lo porterà ad insegnare nelle università inglesi (Oxford, Glasgow, Cambridge) e poi negli Stati Uniti (Massachusetts).

A differenza di Alberti, Cernuda assume un atteggiamento molto critico nei confronti della Spagna. Complice anche la severa educazione militare il poeta criticherà fortemente l’atteggiamento di un paese che, nonostante cerchi di rivoluzionarsi politicamente, rimane arretrato mentalmente. Infatti Cernuda si era dichiarato apertamente omosessuale e questo suo atto lo portò a considerarsi un emarginato, ancor prima dell’esilio politico vero e proprio. Possiamo allora definire Cernuda un antispagnolo a tutti gli effetti.

Tornare? Torni chi ha
dopo lunghi anni, dopo un lungo viaggio,
stanchezza del cammino e una gran voglia
della sua terra, della sua casa, dei suoi amici,
dell’amore che al ritorno fedele lo aspetta.

Piuttosto, e tu? tornare? non pensi a tornare,
ma a proseguire libero avanti,
disponibile per sempre, giovane o vecchio,
senza un figlio che ti cerchi, come Ulisse,
senza un’Itaca che aspetti e senza Penelope.

Prosegui, vai avanti e non tornare indietro,
fedele fino alla fine del cammino e della tua vita.
Non sentire nostalgia di un destino più facile,
i tuoi piedi sopra la terra non calpestata prima,
i tuoi occhi di fronte a ciò che non hai mai visto prima.

Ciò che si è detto sopra viene messo a fuoco da questa poesia, Pellegrino, scritta negli ultimi anni dell’esistenza di Cernuda. Segnato da un continuo vagare tra il nord e il sudamerica, Cernuda si pone questa domanda: “Voglio tornare in patria?”. Da questi versi sembra che la risposta sia negativa. In antitesi ideale con Ulisse, Cernuda è consapevole del fatto che non ci sia nessuno ad attenderlo in Spagna, nessuno che senta la sua mancanza. Allora tanto vale proseguire per la propria strada, ignorando tutto e tutti.

Prosegui, vai avanti e non tornare indietro, / fedele fino alla fine del cammino e della tua vita. Bastano questi primi versi della terza strofa per capire che Cernuda, diversamente da Alberti, non ha interesse nei riguardi di un paese in cui “tutto nasce morto, vive morto e muore morto”. Non piange la sua terra come il Foscolo. Anzi, sarà ben felice quando una terra straniera (il Messico, dove si stabilirà definitivamente nel 1952 e dove vivrà assieme al suo compagno culturista) accoglierà le sue ossa.

Ciro Gianluigi Barbato

Sitografia

Pellegrino di Luis Cernuda

Cantano ancora i poeti andalusi di Rafael Alberti