Turandot al San Carlo: un finale per l’opera finale

Per la Turandot desimoniana che stanno rappresentando al Teatro San Carlo, questa volta, non c’è stato finale: a nulla sono valse le proteste al grido di “vogliamo Alfano!” venute giù dagli spalti.

Per fortuna! diranno i filologi e forse anche gli amanti dell’onestà intellettuale nei confronti di Franco Alfano: musicista che non si merita di essere ricordato come il maldestro profanatore di quella che − sospesa, che sorte! − si può dire l’ultima vera opera lirica della storia, naufragata nel 1924 con il suo ultimo più grande padre.

Nessun finale per Turandot?

Turandot

Puccini era torturato, dal febbraio di quell’anno, da un cancro alla gola diagnosticato solo a ottobre. Aveva portato con sé a Bruxelles − lì il Radium fa miracoli! l’avevano confortato − le tormentate pagine del duetto finale di Turandot che già da tempo giacevano tra le sue carte: come avrebbe potuto la divina e maligna principessa, misandrica vendicatrice, persecutrice armata di scure dei principi ammaliati, trasformarsi in donna amante e amata? Il quesito tormentava Puccini forse più del cancro. «Di ritorno da Bruxelles mi metterò al lavoro» aveva scritto a Giuseppe Adami, uno dei due librettisti autori dell’ingestibile garbuglio.

Giacomo Puccini non sarebbe più ritornato da Bruxelles: agli eredi delle sue cose restavano criptiche linee e poche sezioni complete di canto e pianoforte. All’istante di quella che sarebbe dovuta essere la metamorfosi di Turandot, quale solo la sua musica avrebbe potuto rivelare dando sostanza a un libretto fragile e superficiale, campeggiava la dicitura programmatica: “qui, Tristano”.

Un finale per Turandot?

Turandot Franco Alfano

I committenti della casa editrice Ricordi, che già avevano fissato al Teatro alla Scala in aprile la prima assoluta − Arturo Toscanini sul podio − si diedero un gran daffare perché non saltasse tutto per aria. Quei congiurati improvvisati millantarono le informazioni contenute nei lasciti pucciniani al punto da far credere che sarebbe bastato un revisore qualsiasi per concludere la partitura. Al napoletano − ma cosmopolita − Franco Alfano, che si era già distinto per la sua fiabesca e orientaleggiante leggenda di Sakuntala, avrebbero affidato l’ingrata trasfigurazione di Turandot.

Il suo compito − altro che di revisore! − era fondere e confondere lo slancio visionario del mistico Wagner di Tristan und Isolde con l’arte sublime di Puccini: qualcosa di cui entrambi questi giganti sarebbero appena stati all’altezza. Il maestro posillipino riluttò quanto poté ma alla fine si decise a sacrificarsi per omaggio all’amico scomparso. Nell’impresa, Franco Alfano diede prova di tutta la sua arte: interpretò alla meglio gli appunti del finale di Turandot consegnatigli per fotografia (per cui si buscò un brutto male agli occhi), restituendo ai committenti un risultato di grande qualità: lesse il “qui, Tristano” come una progressiva metamorfosi musicale che portasse il tema del rifiuto di Turandot, mutuato dall’atto secondo, alla cadenza e alla dissoluzione conclusiva nel trionfo sul motivo di Nessun dorma esteso ad inno corale.

Turandot

Piuttosto che il rapido travolgimento emotivo e spirituale Alfano tenta la via dello statico conflitto psicologico, per il tramite di una musica sanguigna e marziana allo stesso tempo. Ci viene restituita una Turandot che, dal momento del primo bacio − fuggevole, altro che trasfigurazione wagneriana! − con quel principe prescelto che ne aveva sventato le insidie, è oscillante tra amore e odio, terrore e passione. La principessa pare respingere con ostinazione lo slancio violento di Calaf ma inaspettatamente cede, travolta infine dal sentimento che la invade.

Alfano molti anni dopo avrebbe confessato Turandot essere il più grande dolore della sua vita: costretto dal velenoso Toscanini ad un taglia e cuci impietoso e goffo, il grande e sfortunato musicista avrebbe dovuto assistere  − inerme al cospetto di tal direttore e di tal casa editrice − all’esecuzione nei teatri del mondo della sua creatura smantellata e zoppicante, finita nel repertorio per condannarlo all’ingiuria. Umiliazione nell’umiliazione, alla prima assoluta − posposta di un anno, il 25 aprile 1926 − Toscanini si sarebbe interrotto senza preavviso al punto su cui la penna di Puccini si era fermata, ignorando il lavoro di Alfano per un sedicente tributo al grande maestro scomparso.

Che finale per Turandot?

Rende indirettamente giustizia ad Alfano il fatto che, proprio al Teatro alla Scala, questo maggio un finale si avràma non il suo. Riccardo Chailly, ora direttore musicale scaligero, aveva infatti curato un finale per Turandot composto nel 2002 da Luciano Berio (1925-2003) e lo riproporrà nella stagione corrente.

Turandot Luciano Berio

Nonostante (leggi a causa di) la sua lunga militanza nella neoavanguardia musicale, fautrice di programmatici smantellamento e ricostruzione del teatro musicale, Luciano Berio sceglie di proporre una lettura della Turandot sospesa tra tradizione e innovazione. Non si può dire se Puccini avrebbe apprezzato: se «contro tutto e contro tutti fare opera di melodia» era stato un suo motto − e s’è visto! −, dall’altra parte sappiamo che nella bagarre − con fischi e tumulti − che fu l’esecuzione fiorentina del Pierrot Lunaire del 1° aprile 1924, l’operista toscano fu tra i più concentrati ascoltatori. Chiese a Casella d’essere presentato all’autore, Arnold Schoenberg, e con quello ebbe una conversazione in un angolino di cui nulla sappiamo.

Luciano Berio, constatata l’inattendibilità del libretto, individua la scelta migliore in «una conclusione più sospesa e reticente, come si addice ad una visione orientale delle cose»: dedica una lunga pagina sinfonica alla scena del bacio − rendendo giustizia più a Wagner che a Puccini… − e lascia il finale privo di fasti e di scene corali. Le percussioni invadono una partitura che strizza l’occhio alle rocambolesche − spesso inascoltabili − partiture teatrali del secondo Novecento. Che sia uno sgambetto o un omaggio al sommo padre dell’opera lirica, starà ai milanesi raccontarcelo.

Se vi interessa saperlo, a terminare Turandot ci ha provato anche la Cina. Il rapporto del regime con quest’opera è controverso: bandita fino al 1998 poiché latrice di una visione antiquata dell’ex Impero Celeste, l’esiliato capolavoro è stato poi reintegrato con il colossale e memorabile allestimento nella Città Proibita, sotto la bacchetta di Zubin Mehta. Come se ciò non fosse stato abbastanza onorevole, nell’occasione del centocinquantenario dalla nascita di Giacomo Puccini, l’affezionata PRC ha incaricato Hao Weiya di regalarci un finale ad hoc.

Il risultato è a dir poco imbarazzante: abbondano i cliché orchestrali e le personalità sono tutte appiattite e ridotte a caricature di sé stesse. L’intervento pomposo dell’inflazionata melodia da Nessun dorma è un inarrivabile capolavoro kitsch che solo un cattivo imitatore può eguagliare. Nota di demerito per l’incongruente conclusione dell’opera sulle note di 茉莉花 (Mo Li Hua), il canto popolare orientale che Puccini aveva inserito nell’opera avendola udita dal carillon del suo amico il barone Fassini: un modo abbastanza scortese di reclamare le prerogative intellettuali su una creatura tutta italiana − e delle migliori.

Antonio Somma