Psycho: l’occhio chirurgico di Hitchcock

Psycho è un film del 1960 diretto da Alfred Hitchcock, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Bloch del 1959. La storia è ambientata in Arizona, dove Marion Crane, bella e giovane segretaria di un’agenzia immobiliare disgustata dalla sua noiosa e squallida vita, decide di rubare una grossa somma di denaro (40.000 dollari) sotto gli occhi del proprio datore di lavoro e della collega Caroline. Durante la sua fuga in automobile è sorpresa da un’improvvisa e battente pioggia, che la porta a sbagliare uscita in autostrada e a scorgere l’insegna del Bates Motel, dove si imbatterà in Norman Bates, proprietario e gestore del motel. All’apparenza un ottimo ragazzo che manifesta soltanto qualche piccola stranezza, come quella di impagliare uccelli, Norman si mostra subito gentile con la donna e, dopo averle consegnato le chiavi della stanza numero 1 la invita a cena a casa sua. Ma, dopo la cena, la donna viene uccisa sotto la doccia da quella che sembra proprio essere la madre del ragazzo che le ha affittato la stanza. La mattina Norman scopre il corpo. Sconvolto fa pulizia, mette il cadavere nel bagagliaio e fa sparire la macchina nelle sabbie mobili. Sconvolto perché sa che l’assassina è sua madre, che è patologicamente gelosa del figlio e non sopporta neppure che parli con altre donne. Un investigatore privato, con l’aiuto del fidanzato e della sorella della donna uccisa, riesce a risolvere la matassa, anche se ci rimette la vita. Norman e sua madre sono la stessa persona: il ragazzo è pazzo, dopo aver ucciso la madre per gelosia ne custodiva il corpo in soffitta e si identificava in lei non sopportando il rimorso del proprio delitto.

La cosa che colpisce di Psycho, e che ha fatto in modo che venga annoverato tra i film più importanti nella storia del cinema, è lostore70 shock che questo ha causato nei suoi spettatori: la suspance in Psycho è rimasta insuperata in tutta la storia del cinema. Per la prima volta assistiamo a un vero delitto sulla scena, pugnalate da una mano violenta che non trova pace finchè il sangue non sgorga a frotte dal corpo esanime di un’attrice bellissima quale Janet Leigh. Lo stesso volto -apparantamente- innocuo, da bravo ragazzo, di Anthony Perkins lascia di stucco a scoprire la (doppia) personalità che vi si cela dietro.

Psycho svela il caos appena sotto la superficie levigata della civiltà, la barbarie ancora una volta e come sempre tra di noi, dentro di noi.

Psycho non ha un vero protagonista, non c’è mai una vera e propria interpretazione simpatetica tra il pubblico e il personaggio in scena. L’unico vero protagonista del film è il terrore. Non esiste una morale, solo paura. E la conclusione, la soluzione dell’enigma, data dallo psichiatra alla fine del film (accompagnata dalla visione di Norman, che ormai ha assunto definitivamente le sembianze di sua madre all’interno della cella) risulta una novità mai messa in scena prima d’ora: la risoluzione del caso è decisamente di stampo psicoanalitico, posizionandosi in maniera perfetta sulla scia delle teorie freudiane che prendevano piede nei gloriosi anni ’60, portando all’attenzione del pubblico il neonato complesso edipico. Il ragazzo, orfano di padre, aveva avvelenato la madre dopo averla scoperta con un altro uomo, ma il rimorso per l’atroce delitto l’aveva portato a trafugarne il corpo, semi-imbalsamarlo, dandogli voce e parte della sua personalità.

wallpaper-del-film-psycho-con-janet-leigh-161345Ma l’asse portante che ha fatto di Psycho uno dei capisaldi della storia del cinema internazionale non è il complesso edipico in cui è immerso il protagonista, bensì il suo cuore che pulsa incessantemente la violenza di cui è intrisa l’intera storia.  Truffaut, nella sua celebre intervista a Hitchcock, forzando appena i termini, ha descritto la forma di Psycho come “una scala dell’anormale”:

“innanzitutto una scena di adulterio, poi un furto, poi un delitto, due delitti, e infine la psicopatia”.

Il livello della violenza cresce implacabile, una violenza che però non è un dato del destino o l’esito d’una antica colpa, come nella maggior parte dei film dell’orrore. L’idea, in Psycho, è che “basta una lieve deviazione nelle relazioni umane (deviazione di percorso, di comportamento, di desiderio) perché esse conducano immancabilmente alla distruzione.”
L’antinomia profonda tra la ratio, la parte razionale dell’uomo che dovrebbe condurlo sulla via della virtù, ed il furor, il cieco impulso che lo trascina e lo spinge verso l’inevitabile rovina, è il carattere portante di tutto il film. Un’antinomia che caratterizza l’essere umano nel profondo della sua indole.

E questo non nasce da una trama ben fatta, da un personaggio ben costruito o da uno scenario impressionista. La magia del film Hitchcock,_Alfred_02non può essere attribuita ad altri che non siano il suo memorabile regista: Sir. Alfred Hitchcock. Se il cinema non è altro che “un occhio sul mondo“, ma non un occhio qualsiasi, l’occhio del regista, che ci offre una visione tridimensionale dei suoi pensieri attraverso la macchina da presa, quest’uomo crea un mondo immaginario, la cui riconoscibilità è tale da essere racchiusa in una cifra stilistica inconfondibile. Ci offre una visione della realtà completamente modificata, fraintesa, da uno sguardo che la trasmuta. Traccia un percorso che finge di essere narrazione, perché la realtà deve essere interpretata come l’elemento risolutivo di un’indagine psicologica. Il narrativo viene ridotto a supposizione, in un contesto in cui comanda il raggiro semantico e una “paranoia dello sguardo” che rende ogni dettaglio significativo. E in Psycho questo raggiunge l’apice, dove tuto accade in un processo ottico della pura percezione soggettiva.

Camilla Ruffo

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